Intervista a Maurizio De Giovanni

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maurizio-de-giovanni_266423Oggi a Contorni di noir, ho il piacere di intervistare lo scrittore Maurizio De Giovanni!

1. Maurizio De Giovanni, scrittore per caso e poi per passione. Ti vuoi presentare ai tuoi lettori? Descriviti con tue parole.
M.: Quale migliore descrizione di quella che hai dato tu? Verissimo, scrittore per caso, perché mi ci sono ritrovato senza coltivare mai il sogno di diventarlo. E per passione, poi, perché senza la passione non credo che riuscirei a raccontare le mie storie. Sono un cinquantatreenne inconsapevole, come quasi tutti quelli della mia generazione che, per fortuna, non hanno mai smesso di essere un po’ i ragazzi che erano. E che, tra tanti difetti, hanno di buono l’onestà di ammettere di avere ancora un po’ di immaginazione e di fantasia.
2. Napoletano “doc”, verace quanto basta. Quanto trasmetti della tua… napoletanità nei romanzi che scrivi?

M.: Credo che nascere e vivere in una città come la mia influenzi inevitabilmente il modo di affrontare l’esistenza, e quindi il pensare e poi lo scrivere. Non è un posto che se ne sta buono a fare da sfondo, tende a rubare la scena, a impadronirsene, come quelli che si accalcano dietro il cronista in un collegamento in video e salutano con la manina, sorridono, si aggiustano la cravatta, guardano in camera facendo boccacce. Se fai parte di un contesto così non puoi combatterci contro: apri la porta e lo fai entrare, adattando a esso tutto il resto.

3. Sono rimasta colpita, durante la presentazione del tuo ultimo libro Per mano mia, quando descrivevi la conformazione di Napoli e il fatto che le storie “ti si gettano contro”, mentre cammini, semplicemente guardando, ascoltando, annusando…
Cosa può donare ad uno scrittore una città come Napoli?
M.: Napoli è un paradiso, per un narratore. Tutte quelle che sono oggettive difficoltà nel vivere civile e sociale, l’impossibilità direi morfologica di mantenere la privacy in un territorio compresso in cui in poco spazio vive tanta gente, crea un costante rimescolamento di passioni e di emozioni. Raccontare queste emozioni per come sono, inventando poco, respirando molto, è più che sufficiente per essere sempre interessanti in quello che si scrive.

4. Sempre alla stessa presentazione, una persona del pubblico ti ha definito un “poeta” e, trovandomi perfettamente d’accordo con la definizione, mi chiedo anche come questo possa fondersi con il genere che scrivi. Ce lo vuoi spiegare?
M.: Ti ringrazio (e ringrazio il mio pubblico), ma non credo di essere un poeta. Mi piace raccontare storie, e le storie sono nella vita; la vita, poi, è fatta di sentimenti e di passioni. Raccontare storie perciò, lasciando che esse non vengano sopravanzate e rese secondarie dalla scrittura, diventa raccontare passioni e sentimenti. Tutto qui. Credo poi che il delitto nasca da passioni, e che quindi sia inevitabile emozionarsi nel raccontare questa terribile ferita sociale.

5. Il personaggio che hai creato, il commissario Alfredo Luigi Ricciardi, è un uomo complesso. Vede i morti (e ne coglie l’ultimo doloroso messaggio), vive rapporti amorosi conflittuali, vive anche in un’epoca dove le indagini sono spesso affidate alla scaltrezza e all’immaginazione della polizia, visto che non esistono ancora le apparecchiature sofisticate dei giorni nostri.
Uno come tanti, in mezzo alla folla. L’unica differenza, rifletté con amarezza, è proprio la folla. La mia è fatta di vivi e di morti, di indifferenza e di dolore, di urla e di silenzi.”
Qual è stata la scintilla che ti ha fornito l’idea per dare a Ricciardi queste caratteristiche?
M.: Volevo un personaggio che camminasse per la città e per la vita essendone consapevole e partecipe, ma esterno. Volevo che non potesse sfuggire al dolore, che la compassione fosse sostanziale al suo essere, che non potesse sottrarsi alla testimonianza della sofferenza, come facciamo purtroppo noi così spesso. E’ proprio questa silenziosa partecipazione, questo assistere al terribile spettacolo del dolore, la caratteristica di Ricciardi. Non credevo che sarebbe piaciuto così tanto ai lettori, ma ne sono felicissimo: significa che la gente sente il bisogno di partecipare al dolore altrui, e mi sembra, di questi tempi, un’ottima notizia.

6. I quattro romanzi che hai scritto con Fandango Libri, che hanno consacrato Ricciardi, intitolati “Il senso del dolore”, “La condanna del sangue”, “Il posto di ognuno” e “Il giorno dei morti”, seguono le quattro stagioni. Qual è la ragione di questa scelta?

M.: In parte è stato casuale, ho cominciato col raccontare una città livida e battuta dal vento, poi ho voluto provare a dare la sensazione dell’orrore anche nella bella stagione primaverile. Le storie dei personaggi andavano intanto avanti, e quindi mi sono ritrovato a seguire il corso del tempo. In fondo, non è così anche la vita?7. Come si è evoluto nel corso dei romanzi?
M.: Io lascio che i personaggi decidano cosa fare. Mi rendo conto che sembra strano, ma è vero: costruisco naturalmente la storia gialla, cercando di non essere cervellotico e di mantenermi aderente alla realtà; ma le interazioni tra i personaggi, gli amori, le simpatie, gli odi prendono il loro corso senza chiedermi il permesso. Direi che quello che sta evolvendo è la mia conoscenza del carattere dei personaggi, e quindi la maggiore profondità con cui sono in grado di raccontarli.8. E come si è evoluto Maurizio De Giovanni nel corso dei romanzi?
M.: Mamma mia, che domanda difficile! Non saprei. Come scrittore vado acquisendo una maggiore consapevolezza, mi fido di più della capacità di descrivere una sensazione, o un paesaggio. Sono diventato più veloce, e forse più indulgente nei confronti di alcuni personaggi. O forse semplicemente sto invecchiando.

9. C’è qualcuno dei morti che ritorna con regolarità fra le visioni di Ricciardi, o sono incontri casuali?

M.: Normalmente le visioni di Ricciardi sono più o meno evidenti a seconda della forza dell’emozione dell’ultimo momento. Secondo lo stesso criterio poi vanno dissolvendosi, e dopo qualche giorno scompaiono. In pochissimi casi, come la guardia e il ladro sulle scale della questura o come la donna impiccata della finestra del palazzo di Enrica, le immagini ritornano dopo essere scomparse. Il fenomeno viene accettato da Ricciardi, che non ha mai provato a spiegarne la fisica, con maggiore sofferenza.
10. Quanto conta l’aspetto psicologico dei tuoi romanzi? E quanto invece l’effetto sorpresa?
M.: L’aspetto psicologico ritengo sia l’aspetto principale. Non inseguo la sorpresa o il colpo di scena, anzi ti dirò che una di queste volte mi piacerebbe “dichiarare” l’assassino a inizio romanzo, per poi seguire col lettore in piena consapevolezza l’evolversi dell’indagine. Mi piace quando sento dire che nei miei romanzi il giallo è assolutamente secondario, anche se sono ben lieto e orgoglioso di essere uno scrittore di genere, se nello stesso genere possono essere annoverati scrittori come Simenon, Ed McBain e lo stesso Eco de “Il nome della rosa”.11. Quando scrivi e dove? So che in realtà non hai un modus operandi… in questo caso come fai a tenere le fila della storia? E soprattutto, cosa ti ha spinto a decidere di ambientare le storie negli anni ’30?
M.: Scrivo come suonavano i pianisti nei saloon, in mezzo al casino di una casa napoletana abitata da una compagna, due figli grandi (e quindi innumerevoli amici, fidanzate, compagni di studio), una rumorosa e canterina collaboratrice domestica dotata di una terribile suoneria di cellulare che squilla in continuazione e di un cane che fa la guardia al contrario, nel senso che abbaia ogni volta che qualcuno tenta di uscire. Capirai che è quasi impossibile mantenere un modus operandi in queste condizioni. Scrivo a immersione, iniziando e finendo il romanzo in tre settimane al massimo e lavorando sei o sette ore al giorno. Ho scelto gli anni trenta perché non volevo le indagini scientifiche, che tolgono per me interesse al percorso di investigazione delle passioni, che è quello che mi preme; quegli anni sono stati gli ultimi prima di luminol, raggi X, impronte, balistica e DNA. E poi, non è affascinante come ambientazione?12. Veniamo finalmente a parlare del tuo ultimo libro, “Per mano mia”, edito da Einaudi. Il periodo in cui si svolge la storia è il Natale che, come definisci tu in un bellissimo pezzo, “è un’emozione” che Napoli vive molti mesi prima, preparando le statuine del presepe. Cosa rappresenta il Natale per Ricciardi e cosa per te?
M.: Ricciardi non ama le feste. E’ consapevole che in quei periodi scema la distrazione costituita dalla lotta per la sopravvivenza e le emozioni, le passioni e i sentimenti, hanno campo libero per mettere in campo i propri contrasti e le proprie opposizioni creando il terreno fertile per il delitto. Il Natale, che è la principale tra le feste, è quindi particolarmente temuto dal commissario che ne farebbe volentieri a meno. Io invece amo molto il Natale, che nella mia città ha odori, sapori e luci inimitabili. E’ il momento in cui la famiglia torna a essere famiglia, invece che una compartecipazione a un immobile.

13. Interessante la visione contrapposta della milizia fascista, ambiente borghese e all’avanguardia, che incuteva paura e rispetto, e dall’altro lato il degrado e la miseria dei pescatori, costretti a sopravvivere di stenti e covando invidie e gelosie nei confronti dei più abbienti. Due classi sociali agli antipodi. Come credi sia cambiata la società oggi rispetto a quegli anni?
M.: Troppo poco, temo. Le contrapposizioni tra le classi sociali, il disagio, la povertà e la miseria sono ancora presenti nella nostra vita e la orientano fortemente. La condizione dei migranti, i campi profughi, la lotta senza pause del volontariato costituiscono la testimonianza che poco è cambiato e su questo dovremmo tutti riflettere.

14. Nelle indagini del commissario Ricciardi, c’è sempre il fidato brigadiere Maione, che cova una sete di vendetta nei confronti dell’assassino di suo figlio. Quindi un poliziotto in perenne conflitto tra dovere e onore?
M.: Per la prima volta nella sua vita, Maione si ritrova a fronteggiare una situazione in cui l’essere uomo, padre e poliziotto vanno in contrasto, imponendogli imperativi comportamentali opposti. Devo ammettere che la storia di Maione, in questo romanzo, è stata molto coinvolgente per me. E che non è stato facile tenerla nell’alveo di una storia secondaria, perché tendeva a prendere il sopravvento sul resto della narrazione. Spero di esserci riuscito, e di aver fornito un racconto interessante.

15. Ho apprezzato moltissimo, come donna, la struggente lettera d’amore che Ricciardi scrive a Enrica. Un rapporto d’altri tempi, in cui la scrittura era pensata e strutturata, in cui la concessione del saluto era di per sé già una conquista, anelata e sofferta, ma proprio per questo più apprezzata. Come pensi si siano trasformate le relazioni tra uomini e donne attualmente?
M.: Mi rendo conto di sembrare ancora più vecchio nel dire questa cosa, ma credo che le donne abbiano perso, forse inconsapevolmente, una grande opportunità nello scegliere di conquistare la piena libertà di comportarsi come un uomo, nelle relazioni affettive. Negli anni trenta, e risulta chiaramente dalla narrativa dell’epoca e da preziosissime pubblicazioni come “Il moderno segretario galante”, una raccolta di lettere da usare in diverse situazioni di cui posseggo una copia del 1929, la donna era su un trono e l’amore degli uomini era come un tributo, da accettare o respingere regalmente. Era bello anche per gli uomini lottare per il proprio amore, consentiva di prenderne coscienza e, una volta ottenuto, lo si salvaguardava con forza e per sempre. In questo direi che abbiamo fatto un deciso passo indietro.

16. Nel romanzo fai un delicatissimo accenno ai famosi fratelli De Filippo e al loro “Natale in casa Cupiello”. Che ricordi hai di questi personaggi e cosa hanno rappresentato per il teatro e per Napoli, secondo te?
M.: Un tributo a uno dei più grandi geni che la letteratura italiana abbia avuto, e a una famiglia che ha fatto la storia del teatro. Per noi napoletani, poi, si tratta di un pezzo fondamentale della cultura che caratterizza la città, e il nostro stesso modo di vivere e di relazionarci. Ancora oggi i testi di Eduardo sono attuali e fortissimi, e spiegano tanto se non tutto della città e del popolo che la abita. Mi sembrava davvero il minimo ricordare che, proprio durante quelle feste del 1931, fu rappresentata per la prima volta, in forma di atto unico, “Natale in casa Cupiello”.

Avrei ancora tantissime domande da farti, ma le conservo per la prossima intervista!
M.: E io le aspetto, con tantissimo piacere.