Anno 2013
224 pagine – brossura
Traduzione di D. Middioni
Rappresentava lo Stato, ma lo Stato rappresentava il disordine e il caos, guidato dai boss della droga.
Una vita vissuta in fretta in un mondo che andava ancora più di fretta. Cresciuto troppo presto, rinunciò a una vera carriera per procurarsi velocemente quello che voleva: soldi, droga, potere.Le parole del sicario escono fluentemente e, nel farlo, si copre la testa e il volto con un panno scuro e comincia un lungo dialogo che pare, più che fatto ai due intervistatori, a se stesso.
La sua dissertazione sul sistema di narcotraffico e sul ruolo che ricopre nella vita e nella società messicana viene svolta con un linguaggio così persuasivo e preciso che mi sembra di assistere a una lezione universitaria. Il sicario è stato parte integrante del sistema che descrive.
La droga e l’ambiente circostante lo avevano in pugno. Era solo uno dei tanti che obbedivano ad un comando. Una macchina pronta ad uccidere.
Ti passavano solo due zuppe: quella di tagliolini e quella del “fottiti”. La prima è finita.
Era sempre strafatto. Il lavoro era una festa, ci si drogava, si beveva e si andava a donne. E un attimo dopo si uccideva, con la stessa facilità.
La cosa sconcertante in questa biografia è leggere con quanta naturalezza l’uomo ammette i suoi omicidi e della facilità con cui li commetteva, annebbiato dall’alcol e dalla droga che lo stesso cartello forniva ai suoi uomini. Era un modo come un altro per renderli dipendenti e incapaci di fare i conti con la propria coscienza. Erano dei “monigotes”, burattini ai quali venivano tirati i fili. La vita non apparteneva più a loro.
Molte attività gestite dal cartello si svolgevano all’interno delle carceri, divenuti a loro volta centri per la raffinazione e il confezionamento della droga da spedire negli Stati Uniti.
Così come le accademie di polizia del Messico, le quali sono state usate dalle organizzazioni di narcotrafficanti come campi di addestramento per gli uomini che avrebbero lavorato per loro. Tutti gli insegnamenti che venivano impartiti – usare le armi, effettuare una sorveglianza ecc. – fornivano competenze che la criminalità era disposta a pagare un mucchio di soldi.
Basti pensare che il governo dava una paga mensile di 150 pesos, mentre i narcos 1.000 dollari al mese.
Dopo tante atrocità, el sicario si è riavvicinato a Dio in un modo particolare.. Vedeva dappertutto messaggi che lo hanno condotto a ripensare alla sua vita e ogni ricordo della sua infanzia è riaffiorato con prepotenza. Si è reso conto di aver servito per anni una persona che non valeva niente e tutto il bene che stava ricevendo lo stava liberando dalla schiavitù e dal giogo dei cartelli.
Ora vive in latitanza, essendoci una taglia sulla sua testa di 250.000 dollari dagli stessi che lo avevano ingaggiato.
Una biografia cruda e agghiacciante, che fa ben comprendere quanto i paesi sudamericani siano corrotti e guidati da uomini temibili e senza scrupoli, spesso collusi con le forze dell’ordine e FBI o DEA.
Mi è subito tornato in mente Il potere del cane, un magistrale romanzo di Don Winslow nel quale si racconta come appunto la CIA, la DEA, la FARC, la UAC, siano tutte sigle che rappresentano uomini che in teoria dovrebbero fare fronte comune per sconfiggere il traffico di droga o per combattere le forze politiche o, invece a destabilizzarle, ma in fondo non sono nient’altro che concorrenti sleali uno nei confronti dell’altro, amici e compagni finché l’obiettivo resta comune, ma pronti a tradire appena cambia il vento.
El Sicario è uscito allo scoperto, ma tanti come lui sono ancora sotto il giogo criminale e la guerra alla droga è sempre un passo indietro.
Un libro che lascia scioccati, ma allo stesso tempo unico nel raccontarci i risvolti di un Paese al quale associamo superficialmente il luogo in cui trascorrere una bella vacanza.
Gli scrittori: