Intervista a Federico Inverni

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Oggi su Contorni di noir ospitiamo Federico Inverni, scrittore esordiente con il romanzo pubblicato da Corbaccio  “Il prigioniero della notte”.
Questo personaggio avvolto da un alone di mistero per l’utilizzo di uno pseudonimo, ha deciso di non rivelare il suo vero nome per dare voce al romanzo e non alla persona. E noi cerchiamo di conoscerlo un po’ di più.

1.     
Ho letto che scrivi sotto pseudonimo e ti sei già espresso in merito alle motivazioni. Quello che mi incuriosisce è sapere come si sceglie il nome da usare. Ce lo vuoi spiegare?
F.:
Certo! Il nome è un omaggio a un cantante che mi piace molto, che ho visto diverse volte in concerto e che mi ha sempre colpito non soltanto per parole e musica, ma anche per la sua storia personale: eccentrica, laterale, coraggiosa, in una parola “rock”. Il cognome Inverni, invece, mi è nato dall’idea che se fossi stato anglosassone mi sarebbe piaciuto scegliere come cognome d’arte proprio Winter. In realtà, le prime cinquanta cartelle del romanzo avevano sull’intestazione proprio F. Winter, perché avevo cominciato a scriverlo in inglese.

2.      Racconta ai nostri lettori qualcosa di te, per quanto ti sia possibile.
F.:
Mi è possibile dire poco… E perciò direi questo: prima di ogni altra cosa, mi sento un lettore. Faccio fatica a ricordare una sera in cui mi sono addormentato senza aver prima letto qualcosa. Preferisco leggere con la musica nelle orecchie, so che ad alcuni disturba il ritmo di lettura, ma io ho bisogno di una colonna sonora. Leggo quasi per istinto, infatti sono capace di far colazione studiando gli ingredienti scritti sulle confezioni di biscotti o di passare minuti interi a rimuginare sulle parole del bugiardino di un farmaco.

3.      Ho letto in una precedente intervista che scrivesti il tuo primo racconto breve da bambino. Di cosa parlava?
F.: Era un racconto dell’orrore. Parla di uno scienziato che in seguito a un esperimento riesce ad andare ‘oltre la soglia’ (era il titolo) e a finire in un’altra dimensione. Il problema è che così facendo apre le porte agli abitanti di quella dimensione parallela, che così entrano nelle persone prendendo possesso della loro mente e, a poco a poco, si sostituiscono a loro. Lo scienziato, responsabile della catastrofe, è però anche l’unico che può salvare il mondo. Anni dopo averlo scritto, mi sono “bevuto” tutti i film di Carpenter e di Cronenberg.

4.      Da dove nasce la necessità di raccontare storie?
F.: Non è tanto una necessità: è una delle cose più divertenti che mi trovo a fare. Se fosse necessario scrivere, per me, probabilmente non ci riuscirei. Ma siccome è lo spazio di libertà più grande, immenso, potenzialmente infinito che posso ricavarmi… è puro piacere! Credo comunque che questo piacere abbia un’origine, e che questa origine si trovi proprio in quanto dicevo prima: essere un lettore — questa sì, una necessità — mi ha fatto amare le storie, di qualsiasi tipo. Forse è lì che va ricercato il seme del mio divertimento con le parole…

5.      E’ appena stato pubblicato da Corbaccio il tuo romanzo “Il prigioniero della notte”. Com’è nata l’idea?
F.: Da una serie di esperienze personali, mi sono appassionato alla questione “memoria” e a ciò che essa comporta. Come funziona, come condiziona le nostre vite, come regola la nostra personalità, il nostro stesso essere. Per capire la memoria, ho deciso di studiarne innanzitutto le disfunzioni… E da lì ho scoperto cose diversissime, entusiasmanti nella loro spiccata paradossalità (entusiasmanti dal punto di vista narrativo, ovviamente), e questo ha dato vita a un personaggio, Lucas, attorno a cui è nata poi tutta la storia del Prigioniero della notte. Vi siete mai chiesti se la vostra memoria sia davvero un’amica fedele e corretta o non sia piuttosto la prima delle mentitrici?

6.      I personaggi del romanzo sono Lucas e Anna. Ce ne vuoi parlare? Quanto hanno in comune?
F.: Lucas è un detective, ed essere un poliziotto è forse l’unica cosa rimasta integra della sua vita. Ha una mente pari a un labirinto, e il primo a perdervisi dentro è lui stesso. Lucas è complicato, come tutti noi, nel modo, ma più di chiunque altro nel grado, nell’intensità. Eppure questo gli permette di avere spiccate doti deduttive. Anna, che io amo molto, è una profiler, di formazione psichiatrica e criminologica. Anche lei, e questo è ciò che ha in comune con Lucas, ha un difficile e irrisolto rapporto col proprio passato, ma anche per lei, come per Lucas, la memoria ha giocato coi ricordi in modo tale da consentirle la sopravvivenza. Anzi, Anna è una donna in carriera, con solo qualche lieve disturbo… E soprattutto, Anna ha tanta rabbia. Una rabbia che nasce da una semplice motivazione: l’ingiustizia. Anna non riesce a tollerare le ingiustizie, sente di dover rimediare in ogni caso, ma non sempre ha l’equilibrio necessario perché la rabbia la acceca.

7.      Nel tuo romanzo si parla di memoria, argomento che apprezzo molto. Poco tempo fa ho seguito con interesse il caso di un medico che, a causa di un incidente, ha perso gli ultimi 12 anni della propria memoria. Quanto pensi possano essere diversi i ricordi riportati da altri?
F.: Secondo alcuni, noi siamo la somma delle storie che gli altri conservano di noi. Io ritengo che la prima di queste storie sia proprio la nostra memoria a raccontarcela. E non inganniamoci: è proprio una storia, che è cosa ben diversa dalla verità. La nostra memoria intesse i fatti del nostro passato in una trama che solo ex-post pare avere un senso, una coerenza interna, una logica motivazionale e una consequenzialità causale quando non finalistica. Ma questo avviene attraverso accurate omissioni, rimozioni, ridimensionamenti, slittamenti di senso di cui nella stragrande maggioranza dei casi non siamo consapevoli. In altri termini: non solo i ricordi riportati da altri sono diversi fra loro, anche i nostri ricordi, in tempi differenti, sono diversi.

8.      E, collegata alla domanda precedente, in quale misura potrebbe modificarsi l’identità di una persona, alla luce del cambiamento?
F.: Dal punto di vista di una presunta ‘normalità’, la modificazione della personalità in base alla mutevolezza del ricordo altrui, e in generale della percezione altrui, dipende dal grado in cui la personalità in questione è suscettibile alle opinioni degli altri. Laddove per suscettibilità non intendo affatto un tratto negativo: in fondo, si tratta di empatia, la dote più preziosa che possediamo (senza la quale, saremmo tutti edonisti assassini seriali, probabilmente). Ma siccome la memoria è la custode della nostra identità — altrimenti non ci ricorderemmo chi siamo, chi eravamo il giorno prima, due giorni prima, e così via — occorre tenere a mente che è una custode che non si limita a osservare. La memoria ci plasma, modellandoci giorno dopo giorno per farci adattare al mondo che ci circonda.

9.      Mi torna in mente il bellissimo romanzo 1984 di George Orwell, nel quale venivano modificati i testi tante volte fino a far entrare nell’oblio il nostro passato. Quanto contano per te la storia e il passato?
F.: La storia universale, il passato universale, per me contano come per chiunque altro: il concetto di storia più alto e nobile che conosco è quello secondo cui la storia dovrebbe essere maestra. Gli errori commessi vanno ricordati e studiati per non commetterli più. Tuttavia, ho sempre più la dolorosa impressione che noi, gli allievi, non siamo studenti all’altezza della maestra. Dal punto di vista individuale, invece, per me il passato e la mia storia rappresentano una strana mescolanza di nostalgia, rimpianto, orgoglio, passione e… vuoti che non riesco a colmare.

10. La cronaca ci dimostra che si può rimuovere dalla memoria un trauma subìto o causato. Mi vengono in mente vari omicidi che sono stati rifiutati dalla mente degli stessi assassini che lo hanno commesso. Come è possibile secondo te?
F.: Non sono un medico, né uno specialista, ma ho letto anche io di casi simili. Molto affascinanti, materia da romanzo, no? In generale, mi pare di aver capito che esiste, da una parte, una certa localizzazione fisiologica, per cui in seguito a traumi o malattie degenerative, alcuni tratti della memoria, della personalità perfino, subiscono modificazioni permanenti, a volte addirittura in totale controtendenza con la personalità ante trauma.
Dall’altra parte, seguendo un approccio forse più gestaltico, la mente va intesa come una struttura adattiva con alcuni punti di ancoramento al cervello, sì, ma in gran parte puramente formale. Questa forma è una struttura adattiva e, in seguito a traumi non soltanto fisiologici ma anche psichici, la forma cambia, modellandosi in modo da garantire la sopravvivenza. Se necessario, i cambiamenti possono essere drastici.

11. Sia il mercato italiano che quello straniero offrono una miriade di romanzi thriller e gialli. Vorrei sapere la tua opinione su quali caratteristiche dovrebbe offrire un buon romanzo di tale genere.
F.: Posso rispondere come lettore. Tra le caratteristiche che mi piace trovare in un buon thriller (non necessariamente tutti insieme) ci sono sicuramente una trama piena di “cose che succedono”: gli eventi devono travolgermi. Dei personaggi primari dalla personalità spiccata e convincente. Un cattivo degno di questo nome, perché, si sa, l’ordine è noioso, sono le forze dell’entropia ad attrarre. E infine, tutto deve tornare, come fosse la dimostrazione di un teorema di geometria euclidea.

12. Cosa ne pensi dei lettori di oggi? Sono attenti, selettivi, onnivori o svogliati?
F.: Tutte queste cose e, a volte, tutte insieme. Ci sono lettori di tutti i tipi, e questa varietà è importante. Io posso solo sperare che anche i lettori più selettivi diventino a poco a poco onnivori, snobbare certi libri perché sono troppo commerciali o, all’opposto, troppo letterari, troppo per giovani o troppo per maschi o troppo per donne o… Ecco, questo è secondo me molto limitativo, significa perdere tante storie che a volte devono solo incrociare il momento giusto. Ma soprattutto, i lettori non sono mai abbastanza e non si legge mai abbastanza.

Ed è con questa risposta che concludiamo questo appuntamento. Alla prossima, Federico!