Intervista a Mikael Santiago

2005

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Mikel Santiago è nato a Portugalete, nei Paesi Baschi, nel 1975. Ha passato la giovinezza a suonare la chitarra in un gruppo rock, vivendo per dieci anni tra la Spagna e l’Irlanda. Ha cominciato a scrivere quasi per gioco, ma il suo talento non è passato inosservato. 
Lo abbiamo incontrato a Milano durante il suo tour per la presentazione de “La strada delle ombre” tradotto in Italia dalla casa editrice Nord.
In pochissimo tempo, è scalato ai vertici delle classifiche spagnole e americane e in corso di traduzione in 20 Paesi. Il suo sito è www.mikelsantiago.com

1. Mikel Santiago, descritto come lo Stephen King spagnolo. Non so se sia un’abitudine italiana di fare paragoni, ma ti ci ritrovi? Descriviti ai tuoi lettori come preferisci, concludendo con un aggettivo che ti rappresenti.
M.: In primo luogo mi sento onorato del paragone, King è uno dei miei maestri e penso che ci sia molto del suo stile in questo romanzo. Come lui, ad esempio, amo collocare persone normali in situazioni straordinarie. La coppia protagonista non è formata da investigatori, poliziotti o detective. Chucks e Bert svolgono un lavoro normale, anche se artistico, non sono abituati alla violenza o ad affrontare situazioni di mistero. Questo è il lato più divertente, vedere come se la cavano persone normali.
Poi c’è anche una componente paranormale, onirica. King probabilmente darebbe a questo romanzo la sua approvazione! Se dovessi descrivere le mie storie, direi “d’atmosfera” e se oggi fosse l’ultimo giorno della terra e dovessi utilizzare una sola parola, sarebbe: tensione.

2. Romanzo molto incentrato sull’amicizia, oltre che al thriller in senso stretto, nel quale due amici condividono praticamente tutto, anche la paura. Da dove nasce l’idea?
M.: Prima di scrivere un romanzo, mi concentro su due elementi principali: nel thriller in questione, un buon intrigo che funzioni e la caratterizzazione dei personaggi. Un viaggio emotivo che accompagni i protagonisti per tutto il romanzo. Volevo creare il ritratto di un rapporto di amicizia fra due uomini – quasi di fratellanza – che quando hanno raggiunto l’età adulta, nonostante gli errori commessi, riescono a mantenere quella freschezza della gioventù e trovano conforto uno dell’altro.. Chucks si appoggia a Bert per contrastare la solitudine che lo circonda e Bert fa affidamento su di lui perché è l’unico a comprenderlo nella scelta di trasferirsi in Francia per un riscatto personale.
Questa è una storia sull’amicizia ma anche sulla fiducia. Prova ne è la versione di Chucks il quale racconta di aver investito una persona ma non ci sono tracce. Credere o non credere, dipende molto dall’amicizia tra i due. La storia è strumentale al thriller in sé.

3. Ambientazione è il sud della Francia: odore di erba bruciata, strilli di ragazzini che giocano a palla, paesini di pietra appesi alle colline. La Provenza è l’invidia del mondo intero. E’ come gettare un’ombra sulla quasi perfezione di questi luoghi..è così?
M.: Uno degli effetti che cercavo era proprio quello di creare un contrasto tra la perfezione di questo scenario e la società che ritraggo. Un posto così idilliaco che nasconde un segreto davvero tremendo, al di là di qualunque immaginazione. Credo che l’effetto di potenziare il contrasto sia stato raggiunto ne La strada delle ombre. Torniamo alla tematica della domanda precedente sulla fiducia: in che misura ti fidi? Bert, la voce narrante, non sembra così perfetto. Verso la fine, quando dovremmo percepire che siamo prossimi alla soluzione del mistero, si anima ancora il sospetto sull’epilogo che avrà il romanzo. La Provenza è un luogo dove non può succedere niente di male e lo scenario potenzia il luogo di alienazione del personaggio, che cerca di comunicare agli altri la sensazione terrorizzante che prova, un uomo in trappola che non riesce a trasmettere il pericolo senza essere preso per matto.

4. Collegandomi alla domanda precedente, descrivi l’arrivo del protagonista in uno di questi paesini – Saint Rémy – come un “periodo di quarantena”, non tanto per l’adattamento suo e della famiglia, quanto al contrario. Quindi una chiusura al mondo esterno per gli abitanti? Sottoposti ad un severo esame..
M.: Più che riferirmi ai provenzali “doc”, nel romanzo mi riferisco al gruppo di espatriati, quelli che avevano scelto la Provenza per viverci. Credo accada a chiunque quando si trasferisce in un altro posto di prendere le misure. Da una parte c’è Miriam, moglie di Bert, ossessionata dall’idea di presentare la sua famiglia perfetta alla comunità organizzando una cena, con il risultato che va tutto a rotoli per la chiamata che Bert riceve da Chucks. Quello che succede a Bert, è un altro elemento di pressione: la famiglia vista come tensione e non rifugio. Bert è schiacciato tra famiglia e amicizia.

5. Entrambi i personaggi, Bert e Chucks, sono alla ricerca di un riscatto, come fossero ormai sul viale del tramonto di un’esistenza ricca di successi, ma anche di eccessi. Il primo alla ricerca di una nuova storia da raccontare e l’altro una nuova canzone di successo.
E’ forse questa la macchina del commercio, in cui bisogna sempre sfornare nuove canzoni o nuovi libri, altrimenti c’è il rischio che si finisca nel dimenticatoio?
M.: Scrivere è come avere un bar sulla spiaggia, ma nella Spagna del Nord: con 11 mesi di inverno e un mese d’estate. Questo mese è assolutamente meraviglioso, è come essere innamorati. I due personaggi sono due artisti che non hanno più l’ispirazione da tanto tempo. Questa siccità ispirativa toglie serenità ad entrambi. L’ansia che vive Bert lo potrebbe spingere a farlo ricadere nella trappola delle droghe e a Chucks, quando è sulla buona strada per scrivere una canzone promettente, succede di tutto.
Quanto all’industria commerciale della produzione, purtroppo è fortemente orientata alle novità in qualsiasi settore, una dittatura esigente dettata da intervalli sempre più brevi. Da parte mia rivendico i buoni libri di qualità, quelli che diventano classici per la letteratura universale. E’ una lotta a cui deve fare fronte qualsiasi scrittore in questo momento.

6. Oltre ad essere scrittore, sei anche un musicista. Quale pezzo sceglieresti per descrivere il tuo romanzo?
M.: Al momento della storia, stavo ascoltando Los Planetas des Holst (I pianeti di Holst), autore al quale John Williams si è ispirato per creare la colonna sonora di uno dei film di Guerre Stellari. Ho costruito un romanzo come un repertorio di concerto rock: cominciare sorprendendo il pubblico, proseguire cercando di mantenere il ritmo, ma anche spazi per calmierare la tensione e poco a poco riprendere l’escalation della tensione con un finale spettacolari al pari di uno spettacolo pirotecnico.

7. C’è il male conosciuto e il male sconosciuto. Bisogna temerli entrambi o è più facile combattere il noto rispetto all’ignoto?
M.: Non enunciare qualcosa di evidente – come può essere il male – è un’arma potente nella narrativa, nonché uno degli ingredienti di base del mio modo di scrivere.
E’ più elettrizzante fare in modo che il lettore si crei una sua versione della storia, piuttosto che presentargli qualcosa si precostituito dove l’immaginazione non deve essere utilizzata. Posso citare a titolo di esempio una scena in cui Bert vede per la prima volta una clinica di disintossicazione: una casa bianca con attorno il bosco. A me dà i brividi e penso che l’aspetto suggestivo è proprio quello che non viene svelato. Molto più interessante il male ignoto che quello noto.

8. Alfred Hitchcock, Stephen King e Patricia Highsmith: descrivici una caratteristica per ognuno di questi autori – per i quali hai raccontato di essere un grande ammiratore – che ti colpisce e che vorresti fare tue.
M.: Di Hitchcock il ritmo, di King la profondità di narrazione e la sua capacità di presentare le storie dal punto di vista umano, della Highmith la descrizione della violenza come solo lei sa fare.

Cecilia Lavopa