Intervista a Donato Carrisi

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(c) Cecilia Lavopa

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Abbiamo incontrato Donato Carrisi insieme ad alcuni bloggers in un ristorantino informale nella Milano da bere e, tra un bicchiere di vino e un risotto alla milanese, ci siamo fatti raccontare come è nato il nuovo romanzo “L’uomo del labirinto“, uscito ora per Longanesi.

1. Ci racconti come è nata l’idea di questo romanzo?
D.: Forse per la prima volta mi sono sbilanciato su questo libro… Mi sono affezionato al personaggio, ho scritto un finale secondo me molto efficace. L’ho scritto in un periodo della vita in cui ero molto incasinato. Stavo finendo di girare La ragazza nella nebbia, una sessione di riprese durissima con Jean Reno e Toni Servillo, alle 4 mi sono infilato infreddolito nella doccia della camera d’albergo e, sotto un getto di acqua calda, scorgo una mattonella rotta. Il giorno dopo ho cominciato a scrivere la sceneggiatura. Ero a due terzi delle riprese e chi mi vedeva pensava che stessi cambiando la sceneggiatura de La ragazza nella nebbia, invece stavo prendendo appunti sul nuovo libro.

2. Quando hai iniziato a scriverlo avevi in mente il finale?
D.: Io comincio sempre a scrivere dalla fine. Ragiono come un lettore: i libri che mi piacciono sono quelli di cui mi ricordo il finale e la stessa cosa mi capita con i film.

3. Leggendo questo libro, hai disseminato tanti piccoli indizi, trovo che sia uno dei tuoi punti di forza come autore. Come funziona questo processo di lavoro sul dettaglio?
D.: Ti devi divertire, devi costruire tutto l’impianto in modo tale da guidare il lettore in un percorso preciso. Non devi mai ingannarlo, devi fornirgli tutti gli elementi per farlo arrivare da solo al finale. Mi accorgo che gli indizi funzionano attraverso il mio editor, perché dalle sue reazioni su determinati passaggi mi fa capire se la strada che ho seguito non è efficace o, al contrario, funziona. In genere conosce il finale e l’incipit del libro. Molte cose lui non le sa, alcune gli arrivano e altre no. Mi fido ciecamente di Fabrizio Cocco e Giuseppe Strazzeri, è un ottimo lavoro di squadra. Non posso fidarmi solo di me stesso.
Una delle persone a cui faccio leggere i libri in anteprima è la moglie di un mio amico, Gianna. Stavolta ha letto il libro e, arrivata alle ultime due pagine dalla fine, ha urlato e l’ha lanciato in mezzo alla stanza dove si trovava. Secondo me quello è un segnale importante. Quando c’è una storia che mi stupisce sul finale, ho sempre una reazione emotiva molto forte. E’ successo con il film “Il segreto dei suoi occhi” (2009), ho sperato che non fosse il finale che avevo immaginato, perché avrei voluto utilizzarlo io.

4. Deep web: è una realtà che si sta diffondendo sempre di più. Come ti sei documentato? Viviamo in un mondo in cui esistono due realtà parallele, una artificiale e una reale. In questo contesto, dove collochi i tuoi romanzi?
D.: Ho acquistato un libricino per capire cosa fosse il deep web, poi ho parlato con diverse persone e fino a un certo punto è stato molto interessante. Poi ho dovuto mollare, ormai la rete è inquietante e sta emergendo nella rete reale, non esiste più un limite. Colloco i miei romanzi esattamente nella terra di nessuno, tra il bene e il male, in quella zona grigia si svolge tutto, la stessa di cui parlava il Suggeritore. Chi comincia un mio libro non sa mai se il protagonista sia buono o cattivo.

5. I tuoi romanzi sono stati tradotti in ben trenta Paesi. Il fatto di essere letto in tutto il mondo, ti ha condizionato? Ha cambiato il tuo modo di scrivere in base al bisogno di universalità, per parlare a latitudini e linguaggi diversi?
D.: Il linguaggio è sempre stato lo stesso fin dall’inizio. Il suggeritore, per esempio non era ambientato, anche questo non è ambientato. Eppure, in giro per il mondo, ti assicuro che il 70% dei lettori lo ambientava nello stesso Paese in cui veniva letto. Se è una storia che parla a tutti, corrisponde alle esigenze di tutti i lettori. Chiaro che se parli di una storia ambientata ad Abbiategrasso, sarebbe più complicato che un giapponese o un americano lo sentano loro. Bisogna uscire un po’ dalla provincia, così si riesce a raggiungere un pubblico più vasto.

6. Dopo la nebbia, il buio e le ombre, arriva il labirinto. Ti piace creare luoghi non luoghi?
D.: Sì, mi piace che tutti i miei romanzi siano labirintici, se decidi di entrare non è detto che tu riesca a trovare l’uscita. A volte ci riesci, a volte no e anche se ce la fai, devi stare attento perché è probabile che da quel labirinto uscirà qualcosa che ti inseguirà fuori dal romanzo. Lo scopo è anche quello.

7. Ci vuoi parlare di questo personaggio particolare: l’investigatore Genko? Perché dargli da subito un destino che non lascia speranza?
D.: Perché è una cosa che ci accomuna tutti. Io comincio a raccontarlo nel momento in cui il suo tempo ufficialmente è scaduto, il momento in cui Samantha Andreis è stata ritrovata. In questo frangente si entra in una fase in cui non sai cosa potrà accadere, può morire dopo un secondo, un minuto o un’ora, la sentenza c’è già. Ho voluto essere realista presentando da subito il destino di quest’uomo.
Genko nasce da un sogno: ho sognato Cesara Bonamici che annunciava un asteroide che avrebbe distrutto la terra. Avevamo 24 ore di vita. Voi cosa fareste? C’è chi ammazzerebbe la suocera, chi si ubriacherebbe. In quelle 24 ore si capisce veramente se quella persona è buona o cattiva, perché con quella anarchia verrebbe fuori la vera natura dell’essere umano. Io mi sono domandato che cosa avrei fatto ed è così che è nato Genko, che vuole chiudere un capitolo della sua vita, chiudere un conto seppure Samantha sia stata ritrovata. Voi siete sicuri di avere chiuso tutti i conti con il passato? Se io vi dicessi che sta per arrivare l’asteroide, potremmo dire di lasciare tutto sistemato? Quello è il suo spettro, la sua ossessione. Ha un atteggiamento ingenuo sulla sua sentenza di morte. SI è preparato facendo il conto alla rovescia, i minuti e i secondi che lo attendevano e invece si rende conto di avere ancora tempo. E si chiede cosa farne, continuare a vivere immaginando che in ogni momento potrebbe morire o sfruttare quello che gli rimane per fare qualcosa di positivo? Mi incuriosiva questo aspetto.

8. Mi è piaciuta l’idea di Sam che si specchia prima di essere rapita e rispecchiarsi 15 anni dopo, stentando a riconoscersi. Come ti è venuta questa idea?
D.: Stasera, quando vai a casa, stacca tutti gli specchi o coprili. Vedi quanto tempo riesci a stare senza specchiarti. Io ho fatto l’esperimento. Forse gli specchi mi hanno sempre fatto paura. Mia nonna mi diceva: “Non mi sono mai guardata allo specchio prima di andare a dormire, perché quello è il momento in cui il diavolo ti guarda negli occhi.” La paura nasce dalle cose che noi riteniamo innocue, se metti in un romanzo un cadavere che cammina e che commette omicidi, è già spaventoso. Se invece tutto fa riferimento a una persona normale, un mostro invisibile che si nasconde tra le pagine, diventa molto più inquietante. Non c’è niente di più bello al mondo della risata di un bambino, sempre che non si senta di notte, sei solo in casa e non hai figli. Prendi una cosa normale, bellissima e la trasformi.

9. Che rapporto c’è tra te e i tuoi romanzi e le tue sceneggiature? Tu hai scritto il romanzo e poi lo hai riadattato al film?
D.: Ho scritto prima la sceneggiatura, poi il romanzo, poi di nuovo la sceneggiatura, infine l’ho diretto. Si comincia a dirigere scrivendo e si finisce di scrivere girando. Non ho mai un rapporto troppo intimo con i personaggi, salvo con Bruno Genko perché l’ho sentito molto vicino, forse per il suo destino particolare. Ho un rapporto particolare con i miei mostri, uno dei consigli che mi diede Jeffery Deaver anni fa è “Io uccido i buoni e non uccido mai i cattivi. I miei cattivi sono tutti in un carcere di massima sicurezza a Manhattan, perché il cattivo è quello che ti regala la storia.” La storia del buono non frega niente a nessuno.

10. Visto che scrivi storie terrificanti, qual è il tuo rapporto con la tua vita reale mentre scrivi il libro?
D.: Questo dovresti chiederlo a Sara (la sua compagna, presente alla cena)! Il maestro delle ombre l’ho scritto mentre ristrutturavamo casa, su una scrivania Ikea piccolina, con un computer che è esploso, mia sorella che dormiva sul divano – appena operata al ginocchio – e un bambino piccolo che girava per casa. Invidio i miei colleghi che dicono di scrivere mentre guardano il mare attraverso la finestra. Io ho scritto sempre in situazioni estreme, mai in condizione di assoluta tranquillità. Prendo appunti in autostrada, ad esempio. Capita che la storia si blocchi e faccia fatica a andare avanti, ma si trova sempre il sistema per sciogliere il nodo.

11. Mi incuriosisce la scelta di utilizzare il coniglio come maschera. Ho voluto cercare su internet di conigli utilizzati nei thriller e nei noir ce ne sono parecchi, come ad esempio Lansdale ha scritto un racconto horror intitolato “The white rabbit” , oppure in un fumetto di Dylan Dog, dal nome “I conigli rosa uccidono”. In realtà tu immagini qualcosa di tenero, affettuoso, innocente e invece…
D.: Il coniglio è ritenuto un animale magico per la sua abilità di viaggiare tra i mondi. Venivano confusi negli specchi per la loro rapidità nello spostarsi, poi sono considerati gli animali più cattivi sulla faccia della terra.

12. Ci parli un po’ meglio del profilo psicologico del consolatore?
D.: E’ una figura che è stata esplorata nella psicologia criminale, ma è molto recente nella letturatura e nel cinema. E’ un fenomeno che si sta analizzando da poco. Il consolatore non è interessato alla morte della vittima, vuole tenerla prigioniera, come noi teniamo prigionieri i criceti, il canarino, il gatto. Per lui non è rilevante l’opinione della vittima prigioniera, così come per noi non lo è per l’animale in gabbia. Si occupa della vittima, senza accudirla. In fondo amo questa figura, anche se è l’apice della malvagità, questa tortura prolungata è peggiore della morte. Guardate Natascha Kampusch, un esempio di vittima che è diventata carnefice. Aveva il controllo su di lui, alla fine e quando è scappata, il rapitore si è suicidato per amore. Gli strumenti di cui si servono i sadici consolatori per rapire le proprie vittime, sono assolutamente insospettabili.

13. Mi ha affascinato la forma del gioco intesa sotto l’accezione negativa, ci sono passaggi assolutamente patogeni. Come ci sei arrivato?
D.: Non volevo che il gioco sadico fosse troppo cruento, volevo renderlo più sottile e per questo forse più crudele. Soprattutto, che non avesse una regola precisa. Ogni gioco ha una regola sottintesa che la vittima deve capire, che è la cosa peggiore. E’ come se ti consegnassero un gioco e ti chiedessero di capire da solo come funziona. I primi giochi sembrano innocenti, poi cominciano a diventare più complessi, ma è sempre la ragazza del labirinto che deve capire come funziona e non sa se porterà a una conseguenza positiva o a una negativa.

Intervista a cura di Cecilia Lavopa e Federica Politi