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Jill Dawson è considerata una delle più talentuose scrittrici inglesi contemporanee. Nata a Durham nel 1962, ha studiato all’università di Nottingham, per poi trasferirsi a Londra nel 1983. Attualmente vive nelle Cambridgeshire Fens. Docente di scrittura creativa riconosciuta a livello internazionale, ha pubblicato nove romanzi e curato diverse antologie di poesie e racconti. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue. Ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra cui l’East Anglian Book Award per Il talento del crimine. www.jilldawson.co.uk
L’abbiamo intervistata in occasione del Noir in festival, svoltosi a Milano e Como dal 3 al 9 dicembre 2018 e che ci ha regalato l’incontro di autori di calibro internazionale. E’ appena uscito il suo romanzo intitolato “Il talento del crimine“, pubblicato da Carbonio Editore e abbiamo scoperto curiosità su di lei e su Patricia Highsmith:
1. Benvenuta su Contorni di noir. Com’è nata l’idea di questo romanzo?
J.: Mi è venuta leggendo alcuni romanzi della Highsmith, come “Il talento di Mr. Ripley” e “Sconosciuti in treno”. Leggendo le sue biografie, ho scoperto che aveva vissuto per un certo periodo in Inghilterra, in campagna, proprio vicino a dove vivo io. Allora ho preso la macchina e sono andata a vedere il cottage nel quale alloggiava e ho cercato di immaginarla che girava e fumava, senza figli e senza marito, da sola nel ’64 in una cittadina di campagna molto conservatrice. E da questo è partita l’idea del libro.
2. Perché la scelta è caduta su Patricia Highsmith? Di autrici di thriller ce ne sono parecchie… E perché non un personaggio inventato, a questo punto?
J.: E’ vero, l’effetto sarebbe stato diverso con un personaggio inventato. La mia passione è trarre spunto da una biografia, quindi da dati reali, mescolare tutto e trasformarlo in un romanzo. Ho due amici biografi, uno di questi Andrew Wilson, il quale ha fatto moltissima ricerca per poter scrivere la biografia della Highsmith, ma a me non piace elencare i fatti come fa un biografo, dalla culla alla tomba. Ho fatto ricerche per conto mio, sono andata in Texas, sono andata a vedere la sua casa natale e ho incontrato persone che l’avevano conosciuta. Il mio desiderio era quello di partire dai fatti, per poi trasformarli in un romanzo.
3. Com’è stato per lei, come scrittrice di crime, descrivere l’assenza di una barriera che ferma ogni essere umano dal trasformarsi in un assassino?
J.: Il mio interesse per Patricia Highsmith è partito proprio dal rispondere a questa domanda. Come e perché una persona trasgredisce? Pensando a Dostoevskij – come cita anche la Highsmith nel libro – come realizzare un delitto e vedere che una persona è dannata per sempre dopo averlo commesso. Leggendo la Highsmith, ho cominciato anch’io a interrogarmi su questa domanda. Mia madre ha lavorato in una prigione femminile, io da giovane ho prestato servizio presso un carcere minorile per ragazzi e lì ti chiedi: “Quali sono le persone che commettono un crimine?” Alcune non lo fanno, perché rispettano la legge, altre invece oltrepassano il limite… Perché?
4. Questa autrice, leggendo la sua biografia, era davvero un personaggio fuori dalle righe. Se fosse vissuta nella nostra epoca, come sarebbero state prese le sue stranezze e i suoi gusti sessuali? Forse non avrebbe usato uno pseudonimo per scrivere “Carol”. O forse si?
J.: Bella domanda… Ci sono due considerazioni: una è che lei era molto coraggiosa rispetto alla sua sessualità, se pensiamo che si trovava in Inghilterra negli anni ’60, dove la sua presenza di donna sola sarà stata sicuramente guardata con sospetto. La ammiro per il suo coraggio per l’epoca. Lei conosceva se stessa, sapeva chi era da quando aveva sei anni. Se la conoscessimo ai giorni nostri, forse si sarebbe forse vergognata meno, magari anche nascosta di meno. Per quanto, lei era comunque una persona molto riservata. Oggi noi saremmo più comprensivi anche su altri suoi aspetti, l’ossessione per le lumache oppure per la sua estrema timidezza. Magari la vorremmo inquadrare in qualche categoria, come la sindrome di Asperger, ma saremmo stati più tolleranti nei suoi confronti. Sicuramente una donna da sola e che viaggia dappertutto oggi non fa notizia.
5. Ho letto la sua biografia e anche lei ha scritto di omicidi basandosi su fatti realmente accaduti. Come ad esempio Fred and Edie (basato su uno storico omicidio di Thompson e Bywaters). Wild Boy (2003) è una altro romanzo “documentario”. The great lover (2009) basato sulla vita di un poeta, Rupert Brooke. A lei piace accomunare le storie in cui ci sia amore e morte?
J.: Sì (ride)! Per la precisione: nascita, amore e morte. Questi sono gli argomenti di cui scrivo. Forse molti, leggendo questo libro della Highsmith, non avranno notato di quanto io abbia voluto descrivere il rapporto che c’era tra la scrittrice e sua madre. Una madre particolare, per cui lei si è sempre sentita abbandonata. Io stessa sono una madre, ho avuto un figlio a 26 anni, poi un altro a 38 e poi a 50 ne ho adottato un altro. Tre figli in età diverse e mi sono sempre interrogata su come si sviluppano le relazioni. Quindi ho scritto molto anche sulla maternità, sulla nascita, sull’avere figli. Anche il mio ultimo libro parlerà di un omicidio, ma anche di un rapporto tra madre e figlio. Alla fine del libro della Highsmith, descrivo molto anche di quanto la scrittrice sia rimasta angosciata da questo legame con sua madre.
5. Cosa significava essere omosessuale ai tempi della Highsmith?
J.: Questa era una parte veramente autentica di se stessa, che scopre molto presto, da quando lei era bambina. Un aspetto su cui la madre è stata terribile nei suoi confronti. Ma nonostante la censura della società e l’atteggiamento orribile di sua madre, lei è stata fedele a questa parte di sé.
6. La Highsmith non amava essere considerata una giallista, anzi si arrabbiava molto. Lei come si considera?
J.: La Highsmith odiava essere definita una giallista e anch’io non mi riconosco in questo anche se, nei miei romanzi spesso l’omicidio, il crimine è l’argomento. Ma non amo questa etichetta, come non l’amava lei. Infatti, in Gran Bretagna sono considerata una scrittrice di bio-fiction (biografie romanzate). Non mi piace affatto questa definizione, parliamo solo di romanzo. Preferisco essere semplicemente definita una scrittrice, perché questa definizione mi consente di diramarmi in ogni direzione. All’epoca della Highsmith era sicuramente una diminutio essere descritto come giallista. Oggi è un po’ diverso, il genere ha tutta la dignità della scrittura.
7. Il personaggio di Sam mi ha molto affascinata. Perché descriverla così debole e conformista?
J.: Stiamo parlando di una persona realmente vissuta di cui la Highsmith era davvero innamorata. Viveva a Londra, era sposata e aveva un figlio; in alcuni romanzi viene chiamata come Caroline Bestemese o anche Mrs X, perché non viene mai rivelato chi era questa persona. E’ morta a 96 anni senza aver mai rivelato la relazione con la scrittrice. Io sono venuta a sapere chi fosse, ha voluto mantenere la sua riservatezza sulla storia con la Highsmith. Quindi mi sono basata su questa persona reale, anche se ho cercato di dissimulare la sua figura, per esempio attribuendole una figlia e non un figlio.
8. Lei dice “La maledizione dell’assassino è la solitudine, la solitudine eterna. Qual è la maledizione dello scrittore?
J.: In uno dei miei libri c’è questa frase: “E’ una gioia essere nascosti, ma è un disastro non essere trovati.” Mi piace essere nascosta, dissimularmi nei miei personaggi, come farebbe un attore. Ma non mi piace non essere riconosciuta, scomparire completamente.
9. Il talento di Mr. Ripley: anche il personaggio creato dalla Highsmith rispecchia lo stesso personaggio creato all’interno di questo romanzo. Il senso di paranoia che prende il sopravvento sia in Mr. Ripley che nella Highsmith qui descritta, lo stesso timore di essere scoperti.
J.: Sì, totalmente. Lei ha detto chiaramente di essere Tom (il personaggio in Mr. Ripley). Si rispecchiava totalmente e il motivo per cui sente di avere tanto potere come personaggio, così forte nei libri che parlano di lui, ha la capacità di entrare nella mente delle persone, ha la stessa rabbia della Highsmith. Era come una persona che sta a guardare dietro le quinte, gelosa di quello che accade, forse anche per il senso di impotenza proveniente dalla sua classe sociale. Facilmente lei si immedesima in Tom, si ritrova. La sua omosessualità le permette di muoversi agevolmente in società e inserire tutto questo nei personaggi.
9. Una frase del suo libro recita: “La violenza non è un atto, ma un sentimento. Non tutti sono capaci di uccidere, questa è un’idea fasulla.” Ho voluto fare un gioco con le parole e trasformare la parola “violenza” in “scrittura”, quindi “la scrittura non è un atto, ma un sentimento. Non tutti sono capaci di scrivere, questa è un’idea fasulla.” Cosa ne pensa?
J.: Io insegno scrittura creativa e sono d’accordo, ci sono tante persone che hanno un talento naturale e facendo dei corsi non possono fare altro che migliorare. Ce ne sono alcune che sono davvero sorprendenti, hanno un dono naturale per il linguaggio, per l’espressione. Sul libro ho inserito delle frasi della Highsmith, ma questo è un mio pensiero, che la violenza non è soltanto un atto ma anche un sentimento.
Intervista a cura di Cecilia Lavopa