Intervista a Emanuela Cervini

3713
733787_618698961491412_260074754_n

Oggi ho il piacere di ospitare sul mio blog una brava e bella traduttrice, Emanuela Cervini, che si presenta così:
“Nata in un paese qualunque del profondo Nord, credevo di essere destinata a una favolosa carriera tra fon e bigodini, finché non ho scoperto che studiare non era poi così male. La passione per le lingue straniere – in particolare per il tedesco, con cui è stato subito feeling – mi ha portato a frequentare l’Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori, dove ho incontrato per la prima volta la traduzione e ho capito cosa volevo fare da grande. Grazie agli insegnamenti di ottimi docenti, a una certa inclinazione naturale e a un pizzico di fortuna, oggi posso dire di avere un lavoro che mi piace. Svolgo la mia attività soprattutto in campo editoriale, traducendo opere di narrativa dal tedesco e dall’inglese. Oltre alla simpaticissima Nele Neuhaus, tra gli autori cui ho dato voce in italiano ci sono Olen Steinhauer, Martin Suter, Esmahan Aykol, Katharina Hagena, Frank Schätzing e James Patterson.
Vivo in provincia di Varese con una gatta extralarge che sopporta i miei ragionamenti a voce alta e mi offre sostegno psicologico per le traduzioni più impegnative.”

 

1. Domanda provocatoria, subito all’inizio di questa intervista: dall’impegno che occorre per fare il lavoro di traduttore, non sarebbe meglio scriverlo, un romanzo? Almeno si avrebbero oneri… e onori!
E.: Forse per avere anche gli onori bisognerebbe scrivere un romanzo di successo. No, non ho mai pensato di scrivere libri miei. Per farlo bisogna saper inventare storie e personaggi, almeno nel caso della narrativa. Preferisco rendere in italiano parole e storie altrui. Non mi sento e non mi sentirò mai una scrittrice mancata.

 

2. Tariffe base: mi spieghi con quale metodo vengono pagati i traduttori? È un tot a cartella? E una cartella a cosa corrisponde esattamente? È lo stesso criterio dello scrittore?
E.: L’unità base per il calcolo del compenso in campo editoriale è la cartella da 2000 battute, dove per battute si intendono sia i caratteri (lettere, numeri, segni d’interpunzione ecc.) sia gli spazi bianchi. Si stabilisce una cifra a cartella – cifra che purtroppo in Italia è mediamente bassa, almeno rispetto ad altri Paesi europei – e alla fine della traduzione non resta che fare un semplice conteggio: battute totali diviso 2000 (per ottenere il numero totale di cartelle) per cifra a cartella. Il risultato è il compenso lordo. Sinceramente non so come funzioni per gli scrittori.

 

3. Come ci si documenta per tradurre un libro? Se ad esempio ci sono riferimenti storici, o tipologie particolari di attività, di definizioni, ci sono dei testi prefissati a cui attingere o la ricerca si differenzia di volta in volta?
E.: No, non ci sono testi di riferimento “fissi”. La risorsa più importante è Internet. Se sai dove e come cercare, molte domande trovano risposta. Ma naturalmente non tutti i dubbi si possono chiarire in questo modo, a volte c’è bisogno del parere di un madrelingua o di qualcuno che conosca bene una certa materia. Ci si rivolge quindi ai colleghi, che sono una risorsa altrettanto preziosa. Direttamente o indirettamente, sono sempre pronti ad aiutare.

 

4. Ho letto in una tua precedente intervista che il consiglio per gli aspiranti traduttori è quello di proporsi come lettore. Mi spieghi in che modo? Occorre redigere una recensione sulla base della quale la casa editrice deciderà se tradurre o meno quel romanzo?
E.: Le case editrici hanno sempre moltissimi libri stranieri da valutare, per decidere se acquistare o meno i diritti di traduzione e pubblicazione in italiano. Il lettore, cui viene concessa in media una settimana, un po’ di più se il libro è particolarmente lungo, deve compilare una scheda con i contenuti dell’opera, qualche informazione sullo stile dell’autore e i motivi per cui si consiglia/sconsiglia la traduzione. Un’opera può non essere adatta al mercato italiano, oppure può andar bene per una casa editrice ma non per un’altra. L’attività del lettore richiede tempo e rende poco in termini economici, ma a mio modesto parere offre maggiori possibilità a chi vuole stabilire un contatto con le case editrici. Una volta avviata la collaborazione e dimostrata la propria competenza, dovrebbe essere più facile ottenere una prova di traduzione.

 

5. In alternativa, con quale criterio le case editrici scelgono il romanzo da tradurre, dando per scontato che il primo motivo sarà sicuramente le percentuali sulle vendite?
E.: A questa domanda potrebbe rispondere meglio un editor o un direttore editoriale, comunque l’aspetto economico è senz’altro fondamentale. Le casa editrici non sono organizzazioni senza scopo di lucro, ovviamente scelgono libri che potrebbero rendere in termini di vendite. Dico “potrebbero” perché non sempre le aspettative vengono soddisfatte; è il rischio d’impresa. Inoltre c’è sempre una linea editoriale cui fare riferimento: una casa editrice specializzata in narrativa americana di certo non prenderà in considerazione un romanzo tedesco o spagnolo, si concentrerà su opere che possono inserirsi bene nel catalogo già esistente.

 

6. E, collegandomi alla domanda precedente, come si fa a stabilire – o ipotizzare – che in Italia quel romanzo otterrà lo stesso successo?
E.: Ecco, in pratica ho già risposto. Non si possono avere certezze, si possono solo fare previsioni, e in questo una buona conoscenza del mercato è senz’altro utile. Alcuni editori rischiano di più, con autori e libri innovativi, altri preferiscono sfruttare il filone del momento (c’è sempre qualcosa “di moda”: vampiri, angeli, sfumature…). Certe case editrici hanno una linea ben riconoscibile e possono contare su lettori affezionati, ma il rischio c’è sempre, soprattutto quando ci si allontana dallo standard.

 

7. Che rapporto c’è tra scrittore e traduttore? Lo scrittore può richiedere modalità particolari alla casa editrice che farà tradurre il romanzo? Tipo mantenere pedissequamente il testo o… E cosa ti capita di chiedere allo scrittore del momento?
E.: Può capitare che l’autore, soprattutto se importante, ceda i diritti di una o più opere a condizioni particolari. Mi viene in mente Andrzej Sapkowski, che a tutti i suoi editori stranieri ha chiesto di essere tradotto dal polacco, senza l’intermediazione di altre lingue. (Oltre a essere molto meno numerosi, i traduttori dal polacco sono anche più cari di quelli dall’inglese.) L’autore può anche chiedere che il libro sia affidato a uno specifico traduttore, ma naturalmente succede solo quando i due già si conoscono e l’autore ha piena fiducia in quel traduttore. Sono casi abbastanza rari, purtroppo la norma sembra essere l’assenza di qualunque rapporto tra autore e traduttore. Eppure, laddove possibile, questo rapporto dovrebbe essere cercato e agevolato: facendo domande e sottoponendo dubbi direttamente all’autore si ottiene una traduzione migliore, quindi va tutto a vantaggio dell’opera.

 

8. Di quale tipo di traduzioni ti occupi, oltre ai romanzi di narrativa, e a quale genere sei più legata?
E.: Il mio primo amore sono stati i testi scientifici, in particolare quelli a carattere divulgativo. In effetti, dopo la specializzazione, ho iniziato con libri di questo tipo. Poi è arrivato il primo romanzo, cui ne è seguito un altro… e così, quasi per caso, ho imboccato una strada diversa. Ormai da diversi anni mi occupo prevalentemente di narrativa, per cui credo di avere una certa predisposizione. Ma non disdegno traduzioni di altro genere, anche più “tecniche”: rapporti sul traffico, testi di argomento ambientale… Se le condizioni sono buone e il testo non richiede competenze specifiche che non possiedo (potrebbe essere il caso dei testi legali), sono più che felice di provare cose nuove. Di recente, per esempio, ho collaborato alla realizzazione di un volume fotografico sulle Dolomiti di Sesto. Un lavoro interessante, anche perché sono un’amante della montagna e frequento la regione dolomitica da circa vent’anni.

 

9. Traducendo un testo del tale scrittore, ti è capitato di appassionarti talmente da decidere di leggere anche quelli non ancora tradotti in Italia?
E.: Purtroppo il tempo da dedicare alle letture “per diletto” è pochissimo, comunque mi è capitato di farlo su richiesta di una casa editrice, che dopo aver pubblicato la prima traduzione italiana (mia) di una certa autrice doveva decidere se acquistare anche i diritti per gli altri suoi libri. Diciamo che in quel caso dovere e piacere hanno coinciso.

 

10. Che differenze noti fra la lettura di un romanzo in lingua straniera rispetto a uno italiano? Sempre che ce ne siano, ovviamente…
E.: Se parliamo di differenze per me, non ce ne sono. Leggo tranquillamente in inglese, tedesco o italiano. Se invece parliamo di differenze stilistiche o di contenuti, distinguerei tra scrittori bravi e meno bravi, tra libri belli e meno belli, indipendentemente dalla lingua.

 

11. Mi ha colpito una tua intervista in cui racconti della censura che viene applicata a certi testi, rispetto all’originale, per una diversa sensibilizzazione agli argomenti… scabrosi. E io che pensavo succedesse solo nei film! Ce ne vuoi parlare?
E.: Il problema degli argomenti “scabrosi” si pone soprattutto per i libri destinati a bambini e ragazzi. In alcuni Paesi si parla e si scrive di certe cose con maggiore libertà. Può capitare che in italiano si preferisca usare un linguaggio più soft, ritenuto più adatto ai giovani lettori. Se una casa editrice adotta questa politica, il traduttore può fare due cose: adeguarsi o tradurre nel massimo rispetto dell’originale, con la consapevolezza che certe modifiche saranno probabilmente introdotte in fase di revisione. Personalmente cercherei un compromesso, una soluzione accettabile per l’editore e il più possibile rispettosa dell’originale, proprio per evitare che i cambiamenti siano poi apportati da qualcun altro. Nel caso della letteratura per adulti non parlerei di censura e argomenti scabrosi, però a volte si nota la tendenza ad appiattire il linguaggio e ad annullare lo stile dell’autore, per far rientrare tutto nella “norma”.

 

12. Ho notato alcune foto di romanzi da te tradotti, con tanto di dedica e firma dell’autore. Quindi presumo ti siano molto grati per il tuo lavoro… E le case editrici? Dimostrano lo stesso apprezzamento?
E.: Temo che la maggior parte degli autori non pensi molto ai traduttori, comunque due secondi sono meglio di niente. Per questo mi piace l’idea della dedica, perché so che almeno per un momento il mio autore ha pensato a me. Alcuni li ho incontrati di persona – Frank Schätzing a Torino, Nele Neuhaus a Milano – e sono stati molto gentili, mi hanno ringraziato e fatto i complimenti. Altri – Esmahan Aykol, Martin Suter – li ho raggiunti attraverso la casa editrice italiana. Sono sempre stata io a fare il primo passo, purtroppo non ho ancora incontrato un autore che di sua iniziativa abbia deciso di ringraziare in qualche modo la traduttrice, per esempio con un messaggio privato, due parole durante un’intervista… Quanto alle case editrici, penso che dimostrino – o debbano dimostrare – il loro apprezzamento con un rapporto di lavoro continuativo, una tariffa adeguata, pagamenti puntuali, e poi magari coinvolgendo il traduttore, dandogli ascolto, invitandolo agli incontri con gli autori… o semplicemente citandolo, a voce o per iscritto, ogni volta che si presenta l’occasione. Anche solo nome e cognome, tanto per ricordare al mondo che esistiamo.

 

13. Gli autori possono decidere di avere sempre lo stesso traduttore per i loro romanzi? Mi viene in mente Indriðason, che in Italia viene tradotto sempre da Silvia Cosimini. Lo stesso scrittore conferma l’importanza di far conoscere un Paese come l’Islanda attraverso dei buoni traduttori che trasformino una lingua così ostica in qualcosa di piacevole da leggere.
E.: Il traduttore può contribuire in modo importante al successo o all’insuccesso di un autore straniero e dei suoi libri. I lettori dovrebbero essere in grado di riconoscere e preferire una buona traduzione, ben scritta, non artefatta, con tutto il sapore originale. Come già detto, un autore, soprattutto se importante, può senz’altro chiedere – e magari pretendere – di essere tradotto sempre dalla stessa persona. Sarebbe bene seguire questa regola in ogni caso, anche senza l’intervento dell’autore. Per riprendere il tuo esempio, Silvia Cosimini è un’ottima professionista e con le sue belle traduzioni ha senz’altro contribuito a far conoscere la letteratura islandese in Italia. Non a caso le è stato assegnato uno dei Premi Nazionali per la Traduzione 2011 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

 

14. Ci racconti del tuo primo libro (o testo) tradotto? Com’è andata?
E.: Inserirsi nel settore editoriale non è facile, non lo era neanche una decina di anni fa, quando ho cominciato. Il primo libro l’ho avuto grazie a una docente dell’Istituto Superiore per Interpreti e Traduttori, che probabilmente ha visto in me buone capacità. Si trattava di un’opera tra divulgazione scientifica e reportage di viaggio. Io ho fatto la traduzione, mentre la docente si è occupata della revisione. Ogni tanto ci incontravamo per discutere correzioni e modifiche. È stata un’esperienza formativa, un’altra occasione per imparare. Ma non posso dire che poi la strada sia stata tutta in discesa, anzi. Avere un titolo nel curriculum non ti dà automaticamente un vantaggio sugli altri.

 

15. Mi sono piaciute molto due frasi che hai riportato: “Adoro riflettere su parole e frasi” e “La narrativa permette di immedesimarsi nei personaggi e di vivere le loro storie”. Quale parola o frase ti ha colpita maggiormente e in quale personaggio ti sei immedesimata, quello che hai sentito più vicino a te?
E.: Le frasi mi colpiscono sul momento, a volte le condivido coi colleghi – anche quelle più strane, per fare quattro risate –, ma non le segno da nessuna parte, quindi ora non posso fare nessun esempio. Comunque con quella frase volevo dire che sono un tipo riflessivo, che preferisco pensare e ripensare fino alla resa che più mi soddisfa. Ecco perché a scuola ho capito subito che non sarei diventata un’interprete, bensì una traduttrice. L’interpretazione, anche quella consecutiva, richiede una prontezza che non possiedo, non quando si tratta di trasferire qualcosa da una lingua all’altra. In compenso sono brava a immedesimarmi nei personaggi, a entrare nelle storie. Secondo me è un buon modo per ottenere una traduzione che suoni naturale, soprattutto nei dialoghi. Mi chiedo sempre: “In una situazione simile, come direi questa cosa? Come esprimerei questo concetto?” O anche: “Qual era l’intenzione dell’autore? Che effetto voleva ottenere?” Non parlerei di affinità, ma senza dubbio certi personaggi mi sono più simpatici di altri. Se devo fare un nome: Kati Hirschel, la libraia e detective dilettante (o forse dovrei dire ficcanaso professionista) inventata da Esmahan Aykol. Mi piace perché è ironica e… fuori come un balcone :-).Alla prossima!

Intervista a cura di Cecilia Lavopa