Intervista a Alessandro Storti

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2014 05 31 - parco sempione 5
foto di Ingrid Basso

Alessandro Storti si presenta così:

Sono nato a Milano, dove tuttora abito. Già sui banchi di scuola nutrivo un vivo interesse per le lingue vive, morte o malandate, e ancora oggi tengo sul comodino una pila di grammatiche. Dopo la laurea, con una tesi in filologia germanica, e un lungo periodo passato a saltabeccare fra i mestieri più disparati, improvvisati e imparaticci, dal 2008 mi dedico a tempo pieno all’editoria libraria, come libero professionista.L’approdo alla traduzione è stato tardivo e fortuito, ma assai felice: più di quaranta titoli, e altri tre libri al momento in cantiere. È forse un’attività poco profittevole sul piano pecuniario, ma ricca di soddisfazioni, soprattutto perché mi consente di fumare sul luogo di lavoro (sì, sono un degno epigono di Zeno Cosini, sempre con l’Ultima Sigaretta fra le dita). Mi occupo prevalentemente di narrativa, scandinava o in lingua inglese, spesso di genere poliziesco o fantastico, ma ho all’attivo anche qualche testo di stampo giornalistico e un pizzico di letteratura per ragazzi. Nel mio curriculum figura anche Halldór Laxness, premio Nobel nel 1955, del quale ho tradotto due romanzi.

L’ultimo romanzo tradotto da Alessandro Storti è “Vita dopo vita” di Kate Atkinson della casa editrice Nord.Benvenuto su Contorni di noir, Alessandro.

1. Raccontaci come sei approdato alla traduzione e per quale editore.
A.: Per combinazione. In gioventù traducevo romanzi per svago, senza alcuna velleità professionale. Ammetto che come passatempo fosse un po’ insolito, ma d’altronde c’è chi ne coltiva di ben più balzani e arrischiati. Poi ho conosciuto Emilia Lodigiani, proprio pochi giorni dopo che uno di quei libri era stato inserito nel programma editoriale di Iperborea. Mi ha chiesto di farle leggere la mia traduzione e, avendola gradita, l’ha pubblicata.

 2. Come ci si propone alle case editrici? E che tipo di “test di entrata” serve?
A.: Ci si può presentare allo stesso modo di chi si propone per un tirocinio o un impiego: inviando il proprio curriculum. Generalmente, viene richiesto un saggio di traduzione. Non esistono parametri universali: ogni editore ha esigenze tutte sue, vezzi espressivi, piccole insofferenze personali, politiche aziendali e linee culturali differenti. E anche i traduttori sono diversi fra loro: c’è l’estroso, il pedante, il cavallo pazzo, il filologo mancato… Non tutti sono ugualmente portati per tutti i tipi di testi. Dunque il suddetto saggio, più che a un “test di entrata”, somiglia a un appuntamento al buio: non è soltanto l’editore a dover capire se io sono la persona adatta a tradurre per lui, ma anch’io ho bisogno di sapere se un’eventuale collaborazione possa essere professionalmente profittevole.

3. Come si traduce un testo? Descrivi ai nostri lettori i passaggi obbligati da prevedere per cominciare il lavoro. Che tipo di documentazione cerchi?
A.: Confrontandomi con i colleghi, ho constatato che ogni traduttore ha un proprio metodo, dunque posso soltanto dirti come mi comporto io. Per prima cosa, leggo il testo da cima a fondo, per comprenderne bene la natura. Nel caso di un poliziesco, per esempio, mi fa comodo sapere chi è l’assassino prima di accingermi al lavoro, in modo da cogliere tutte le velate allusioni, i piccoli indizi. Accostandomi a libri di una certa levatura, poi, mi è utile studiare a fondo l’autore, per assorbirne convenientemente lo stile e la tecnica narrativa. In questa fase, prendo parecchi appunti. Dopodiché, do inizio all’opera.

4. Intervistando i tuoi colleghi, emerge che le tariffe applicate oggi sono ancora troppo esigue rispetto al lavoro che si svolge. Sei d’accordo?
A.: Altroché. Essere traduttori a tempo pieno significa rimanere incollati al calcolatore mattina, pomeriggio e sera, e a stento riuscire a pagare le bollette. Però occorre anche considerare che il nostro lavoro genera un giro d’affari assai magro. Tuttavia, con alcuni committenti si può tentare di contrattare. Se, poniamo, un editore mi chiede una consegna rapida, insisto affinché mi venga pagata l’urgenza. A volte mi tocca capitolare, perché la somma stanziata per il libro in questione non consente un aumento del compenso; altre volte, però, riesco a ottenere quell’euro in più.

5. Quando traduci un romanzo, conosci personalmente lo scrittore al quale si riferisce? Ci sono delle particolari richieste a cui devi attenerti, per riuscire a mantenere stile e carattere del testo originale?
A.: No, di solito procedo in piena autonomia. Soltanto in un paio di occasioni ho intrecciato un breve carteggio con un autore, proprio per sciogliere un dubbio di stile: volevo essere certo che determinate bizzarrie espressive fossero pertinenti al tema del libro, e non semplici ghiribizzi da scrittore. Dopo la consegna di una traduzione, inoltre, mi capita spesso di essere interpellato nel corso del lavoro redazionale, ossia l’ultimo ritocco prima della stampa. È una bella attestazione di rispetto professionale nei miei confronti, ma soprattutto è un modo di rendere un buon servizio all’autore, al testo e, non ultimo, al lettore.

6. Ci racconti un aneddoto particolare che ti è capitato durante la traduzione di un testo?
A.: Qualche anno fa ho lavorato a un romanzo la cui conclusione era interamente costruita sul fatto che, nell’Emisfero Australe, il sole tramontasse a est. Una castronata che, misteriosamente, nessuno aveva notato. Fortunatamente, l’autore ha provveduto a riscrivere alcuni paragrafi, dando al capitolo una parvenza di plausibilità. Ricordo che poi la redattrice italiana mi ha chiesto quali studi avessi compiuto, per sapere che il sole tramonta a ovest.

7. Un altro aspetto che è emerso nelle interviste ai tuoi colleghi è il completo assorbimento che questa tipologia di lavoro impone, al pari o in modo superiore a quella degli scrittori. Hai lo stesso problema? Riesci a conciliare il resto dei tuoi impegni con questa attività?
A.: I colleghi hanno ragione. Io lavoro anche il giorno di Natale. Mi capita anche di dover sottrarre qualche ora al sonno, quando un editore mi spedisce alle sei di sera un romanzo norvegese di cinquecento pagine, chiedendomi un parere di lettura per le nove del mattino seguente.

8. Tradurre un libro equivale a leggerlo con più attenzione e coglierne ogni sfumatura?
A.: Senz’altro. Più si afferra, più si è in grado di ridurre le inevitabili perdite a cui ogni traduzione è soggetta: un tono espressivo, un timbro, un’allusione. Se non si comprende appieno il testo originale, è impensabile che si riesca a trasferirlo adeguatamente in un’altra lingua.

9. Quando finalmente il libro viene pubblicato, quanta gratificazione provi a leggere il tuo nome sul romanzo? Pensi in qualche modo di aver contribuito al successo dello scrittore?
A.: In qualche misura, sì. Ma il successo di un testo dipende da parecchie persone: chi l’ha scritto, chi l’ha curato, chi l’ha controllato, rivisto, impaginato, stampato, chi ne ha scelto la copertina, chi l’ha commercializzato, distribuito, pubblicizzato, recensito, e soprattutto chi l’ha acquistato e letto. Io sono solo una delle numerosissime ruote dentate della pubblicazione. Certo, è doveroso che nel libro figuri il nome del traduttore, ed è sempre una soddisfazione trovarmi fra le mani il risultato del lavoro che ho appena concluso: una teglia di lasagne, una pila di camicie stirate, oppure un libro fresco di stampa.

10. Quali emozioni si provano a tradurre un premio Nobel come Halldór Laxness?
A.: Uno stupore continuo. Indipendentemente dal Nobel. Non conto nemmeno più quante volte ho riletto Sotto il ghiacciaio e La base atomica, eppure non appena li riprendo in mano vi scopro qualcosa di nuovo. Ma in fondo la grandezza dei classici sta proprio nel fatto che la loro riserva d’informazioni non si esaurisca mai.

11. Noto che spesso i siti delle case editrici non riportano i nomi dei traduttori. Cosa fai tu a questo proposito?
A.: Nulla. Il mio nome figura comunque nel libro, e tanto mi basta. So che molti miei colleghi anelerebbero a una maggiore visibilità, ma io preferisco posizioni più defilate. Ho un’indole da sguattera, sto meglio nel retrocucina.

12. C’è un autore che avresti voluto tradurre? E, curiosità, quali autori legge un traduttore?
A.: Ce ne sono tanti, tantissimi, che vorrei tradurre, ma che in Italia non avrebbero mercato, e molti ai quali mi sarebbe piaciuto lavorare, che però sono stati ottimamente tradotti da altri. Quanto alle mie letture personali, ahinoi, devo comprimerle nel poco tempo libero, e questo mi obbliga a sceglierle con attenzione. Seguo molto certi autori che fanno della lingua italiana un uso creativo e al tempo stesso rispettoso, preciso, meticoloso. È un buon modo per tenere sempre piena la cassetta degli attrezzi del traduttore. Michele Mari, per esempio, è un ricchissimo campionario di linguaggi.

Grazie della disponibilità, Alessandro!

A.: Grazie a te!