Con una precisione a dir poco sospetta anche quest’anno era arrivato il Natale. Di Noir, oramai avvezzo ai tiri mancini ed anche destrorsi del destino, si aggirava per le strade della città osservando l’andirivieni frenetico e bulimico dei perpetratori dell’insano rito dei regali natalizi. Spesso, nelle sue elucubrazioni scatenate dagli effluvi che solo il passato di scorzonera riusciva a scatenare, si era chiesto da quale esegeta in babbucce e vestaglia o da quale commentatore dedito al Previtin, fosse mai scaturita questa idea malsana che a Natale uno si dovesse sbattere come un tappeto per trovare un regalo – originale – per amici e parenti i quali, puntualmente ogni anno, si moltiplicavano come larve su di una carogna in estate. Ecco, con questo favoloso spirito e predisposizione d’animo, Di Noir si apprestava a calcare i sampietrini del centro ed a fendere, con finta sicumera, la marea umana impacchettata.
Quando ormai la sua già flebile mente stava per esser sopraffatta e lo spirito di Chuck Norris impossessarsi di lui, la sclera del suo occhio sinistro colse uno scintillio inusuale, talmente anomalo che riuscì nel compito di distrarre contemporaneamente entrambi i neuroni che orbitavano nel vuoto pneumatico della sua scatola cranica. Ciò fece scaturire un impulso nervoso al limite del tic neuro-spasitco verso, nell’ordine: testa, spalle, petto, bacino e gamba destra. Come un automa ottocentesco Di Noir fece una rotazione di novanta gradi sul posto in modo che entrambi i cristallini dei suoi occhi potessero leggere – perché di un’insegna si trattava – la scaturigine dello scintillio: “Gran Bazar da Wu”.
Bingo. Seguitando a muoversi alla stregua di Boris Karloff nel miglior Frankenstein, Di Noir arrivò fino alla porticina del negozietto, girò la maniglia consunta ed entrò, accompagnato nell’ultimo passo dal cicaleccio meccanico di un campanellino. Lo shock arrivò solo un nanosecondo più tardi. Di fronte a lui si apriva uno spazio immenso: il soffitto non era visibile per la quantità di roba appesa ed aveva a disposizione un numero di corsie impressionante. Se dava retta ai numeri che comparivano al principio di ciascuna, ce n’erano almeno 284 e nessuna di esse presentava le stesso tipo di prodotto.
“Benvenuto da Wu” modulò una vocina che sembrava venire dal basso. Di Noir, ancora sconcertato e in piena sindrome da stress post-traumatico, si girò intorno senza vedere nessuno, accennò a una risposta dischiudendo la bocca, ma non fece in tempo ad articolare che la medesima vocina, dal medesimo punto non ben definito continuò “si è molto più glosso all’intelno che all’estelno”. Con la sensazione d’averla già sentita, questa battuta, Di Noir riprovò invano a replicare, fallendo miseramente.
“Se tu cerca legalo pel Natale fa pule come casa tua. Qui abbiamo tutto”.
La parola magica venne pronunciata dalla voce e chiunque ne fosse l’origine era di certo sparito da qualche parte. Cullato da una musichetta improbabile che gli ricordava, al contempo, l’odore di fritto che non ti si toglie dagli abiti nemmeno se li bruci e un sentore d’agrodolce in fondo al palato, Di Noir prese il coraggio a due mani ed iniziò l’esplorazione. Ogni scaffale era stracolmo d’ogni forma di ciarpame che l’intero universo conosciuto e sconosciuto era in grado di produrre. Gli odori plasticosi che scaturivano dagli oggetti avevano gli stessi effetti delle benzodiazepine, alcuni, oppure dei più potenti e vietati oppiacei che la natura e la chimica erano in grado di sintetizzare. Annusarne uno qualsiasi per più di qualche secondo significava perdersi in un viaggio acido da cui, difficilmente, si sarebbe potuti tornare indietro: la prospettiva, per un attimo, lo solleticò potentemente. Non vi erano etichette sui fianchi degli scaffali, ma ogni oggetto era correttamente prezzato. L’idea, quindi, non era di comprare in base a un genere, ma in base a quello che l’oggetto stesso rappresentava. Quella che aveva scelto doveva essere la corsia della roba per la casa perché, nei primi quaranta metri che aveva percorso, aveva visto solo svariegate tipologie di pentole, padelle, piatti, teiere, tazzine, tazzone, bicchieri et similia.
La cosa più folle, però, erano gli abbinamenti cromatici, roba che forse andava di moda su Alpha Centauri. Obnubilato da contata roba, Di Noir tentò di far mente locale e di focalizzarsi su quelli che sarebbero potuti essere dei regali simpatici da fare. Provò a fare una rapida lista mentale, ma desistette due secondi più tardi quando di colpo gli sembrò di vedersi a fianco un esserino che si dimostrava intento ad impilare dei sottopentola in berillio-tallio a forma di campanula dei Pirenei. L’ometto, se così possiamo definirlo, gli dava le spalle e Di Noir aprì la bocca per chiedere un’indicazione. “Se tu celca felmapolta a folma di lospo è a metà del plossimo collidoio” chiosò la creatura senza nemmeno girarsi e, mezzo secondo più tardi, era già sparita dietro un cartone che conteneva portauova per struzzi in bachelite azzurognola.
Pietrificato come una vittima della Medusa, Di Noir si mosse quasi in trance fino a “metà del plossimo collidoio” ed esattamente in quel punto faceva bella mostra di sé un improbabile fermaporta in ghisa a forma di rospo. E uno. Quando Di Noir prese in mano il fermaporta si rese conto di non sapere dove metterlo. “Tenga plego” la voce alle sue spalle lo fece girare di scatto. Davanti a lui stava un carrellino in plastica gialla. Senza chiedersi più nulla Di Noir sistemò il fermaporta nel carrellino e per quelle che gli parvero almeno due ore, girovagò per l’immenso bazar riuscendo a trovare tutti, ma proprio tutti, i regali che avrebbe dovuto fare: il fermaporta, un pacco di mollette per la biancheria a forma di stella cadente, un coltellino svizzero con quarantasette accessori (tra cui un fornelletto da campo, un phon e un imbuto), un cappello per mancini in vero finto pelo sintetico, uno spremidentifricio senza maltodestrine… Per ognuno di essi non aveva mai dovuto formulare la richiesta direttamente. Gli era bastato pensare anche alla cosa più assurda ed ecco che la vocina, o la creaturina, comparivano e scomparivano non prima d’aver suggerito corsia e punto in cui trovarla. Mai una volta, però, era riuscito a vederne il volto.
Con la stessa metodologia si svolse tutto il resto, fino ad arrivare alla cassa – in modo assai rocambolesco che ci vorrebbe solo un altro racconto e una spiegazione alla Ray Bradbury – pagare e uscire con un bel saccetto croccante. Non appena il freddo pungente lo colpì in pieno viso e il cicaleccio elettronico lo salutò, Di Noir guardò distrattamente l’orologio, in un gesto quasi automatico. Tre minuti. Erano passati solo tre minuti, stante il suo simil-swatch. Pensò che l’orologio fosse farlocco e allora guardò la torre, ma anche quel meccanismo impeccabile che da anni segnava la vita della città gli diede il medesimo responso. Ancora stralunato si girò verso il negozio…che non c’era più. Dove poco prima aveva visto l’insegna “Gran Bazar da Wu” c’era adesso un tolettatore per animali. Di Noir si guardò intorno sperando d’essersi sbagliato, eppure l’insegna era di quelle che non si dimenticano…Nulla. Niente. Consapevole che anche quell’anno lo spirito burlone del Natale si era dato da fare con lui, si rimise a passeggiare trascinandosi dietro il suo sacchetto ricolmo di nefandezze, tra cui un fermaporta in ghisa a forma di rospo. Senza accorgersene iniziò a canticchiare un motivetto che di colpo gli fece venire una gran voglia di riso cantonese, involtini primavera e pollo con gli anacardi.
Auguri di Buone Feste dallo staff di Contorni di noir!
Racconto a cura di Michele Finelli