Intervista a Andrea Fazioli

2007

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Andrea Fazioli, nato nel 1978, vive a Bellinzona, nella Svizzera italiana. Guanda ha pubblicato L’uomo senza casa (2008, Premio Stresa di Narrativa, Premio Selezione Comisso), Come rapinare una banca svizzera (2009), La sparizione (2010, Premio Fenice Europa), Uno splendido inganno (2013), Il giudice e la rondine (2014) e L’arte del fallimento (2016, Premio Fenice Europa). I suoi libri sono tradotti in varie lingue. Gestisce il blog andreafazioli.ch/blog

E’ uscito il suo romanzo intitolato “Chi non muore si rivede“, Guanda Editore e lo abbiamo incontrato per farci raccontare di Elia Contini e dei tanti progetti che l’autore sta portando avanti.

1. Torna Elia Contini, nato dalla penna di Andrea nel 2005 con Chi muore si rivede. Questa volta la storia parla di un incontro di due mondi completamente diversi, ma forse non così tanto: la Svizzera con le sue montagne e il Sahara. Come ti è nata l’idea?
A.: L’idea è nata a partire da un paesaggio. L’altopiano della Greina, fra le montagne della Svizzera italiana, per me ha sempre avuto un valore speciale. Fra l’altro, è un luogo unico nelle Alpi: di colpo le montagne si allargano e la pianura si fa distesa, ondulata. Questo paesaggio mi ha sempre ricordato un frammento di deserto scagliato nelle montagne svizzere. Da tempo volevo scrivere su questo luogo ma non ho mai avuto l’idea giusta. Poi, per caso, ho conosciuto alcuni Tuareg e la loro cultura. Piano piano ho scoperto che nel loro modo di pensare e di vivere le emozioni c’è qualcosa di simile a me, ai miei stati d’animo. Approfondendo poi la cultura tuareg mi è capitato di leggere Ibrahim Al–Koni, il quale ebbe a dichiarare in un’intervista che tra tutti i paesi in cui aveva vissuto girando il mondo, quello che più assomigliava al deserto del Sahara fosse la Svizzera. Incuriosito da questa osservazione, mi è venuta l’idea di accostare questi paesaggi tanto diversi per capire se veramente abbiano qualcosa in comune.

2. Viviamo circondati da paure: paura dell’altro, del futuro, di tutto ciò che non conosciamo.
In questo momento storico durante il quale la questione immigrazione è quanto mai attuale – oggetto di studi, summit, incontri e scontri politici e sociali – e i nazionalismi prendono sempre più piede, si tende ad evidenziare le differenze che ci dividono dal diverso da noi (cos’è, poi, la diversità?). Attraverso Moussa, ci indichi invece un’altra ottica perché, anziché le differenze, sottolinei le similitudini. Come viene vissuto dai componenti della famiglia sapere che l’unico legame con Eugenio Torres sembra essere un tuareg?
A.: La paura c’è, è innegabile, così come c’è la diversità. Non bisogna fingere che non esistano. Ma è vero che, se si compie un lavoro di immedesimazione nell’anima degli altri, si scoprono pure le somiglianze. Sulle prime la famiglia di Torres è un po’ imbarazzata di fronte a quest’uomo che viene dal deserto e che sembra così distante. Nello stesso tempo anche Moussa si sente spaesato: lui che ha vissuto tutta la vita in Niger si trova all’improvviso in Svizzera, in un mondo completamente diverso. Poi però, piano piano, emergono delle similitudini. I membri della famiglia Torres, così come Elia Contini, scoprono che nel profondo della loro anima c’è lo stesso desiderio di felicità che ha Moussa ag Ibrahim.

3. Il tema della scomparsa: Chi di noi non ha mai pensato di scappare dalla propria vita, di non farsi più trovare, oppressi dalla quotidianità, assillati dai problemi senza riuscire ad affrontarli. Problema in genere è non per chi se ne va, ma per chi resta. Per le domande senza risposta, di un allontanamento volontario o di un fatto di cronaca. Proprio in questi giorni la cronaca ci ha riportato il fatto di un imprenditore pisano scomparso e ritrovato a Edimburgo che ha finto la perdita di memoria per sfuggire all’oppressione della suocera. Ma si può davvero cancellare tutto? Ricominciare da zero?
A.: A volte l’ingombro della quotidianità diventa un peso; a volte il nostro desiderio profondo di libertà ci illude e ci fa pensare che fuggendo possiamo avere altre vite, abitare altri mondi. Per questo i casi di cronaca mostrano come molti abbiano voluto tagliare i ponti con ogni legame, cancellando ogni traccia del proprio passato. Alla fine però non è mai possibile ricominciare da zero, fare terra bruciata attorno a sé. Anche se tentiamo di lasciarci tutto alle spalle raggiungendo l’altro capo del mondo, poi – quando meno ce lo aspettiamo – ci ritroviamo davanti a noi stessi.

4. Hai fatto svolgere a Contini le indagini più disparate, con tematiche molto importanti e profonde. In questo romanzo parli di come sia difficile avere un senso di appartenenza al proprio Paese. Ogni città è un deserto, come pensa Moussa?
A.: Per uno scrittore che come me vive e lavora in Svizzera, riflettere sul senso di appartenenza e sul senso dell’identità è molto importante. Sono di lingua e cultura italiana in un paese in cui questa lingua e questa cultura sono una minoranza: sono perciò abitutato a confrontarmi con altre lingue, altre culture, altri modi di vedere il mondo. Questa peculiarità a volte può essere faticosa, ma in fondo è una grande ricchezza. Ogni città è un deserto? A volte sì, perché l’uomo ha una solitudine di fondo che non riesce a scrollarsi di dosso. Ma il lavoro della nostra vita è proprio tentare di colmare il fossato, di vincere la solitudine creando legami. In questo senso l’identità andrebbe sempre vissuta come multipla: io appartengo al mio paese, alla mia cultura, alla mia religione. Ma nello stesso tempo appartengo anche alle culture, alle lingue, ai paesi e alle esperienze delle persone che incrocio durante la vita. In questo senso mi sono scoperto appartenente anche alla cultura tuareg, che ho approfondito per scrivere questo romanzo. Ogni viaggio che facciamo, ogni paese che sogniamo arricchisce la nostra identità.

5. Mi ha colpito una tua frase, che è poi quella che riprende il titolo del libro. “E’ meglio così, almeno è morto felice. Per forza, siamo in Svizzera.” Ha fatto molto scalpore la vicenda di DJ Fabo, malato terminale che ha voluto terminare la sua esistenza in Svizzera. La Svizzera negli anni 90 era il Paese in Europa con il più alto tasso di suicidi. Questa tendenza si è poi attenuata, ma perché era così sviluppato?
A.: Forse la Svizzera non è mai stata il paese con il più alto tasso di suicidi in Europa, ma certamente tra gli anni Settanta e gli anni Novanta era purtroppo nelle primissime posizioni. Il malessere che porta al suicidio è difficile da definire. Ora in Svizzera i suicidi sono drasticamente diminuiti, mentre in altri paesi sono aumentati. Comunque io diffido di tutte queste statistiche e credo che, a parte nei luoghi in cui c’è un evidente situazione di disagio, credo che l’infelicità possa diffondersi ovunque, in ogni paese e in ogni città di questa terra. Credo che sia tuttavia possibile trovare se non la felicità, quantomeno una forma di lotta che ci porti ad avvicinarci sempre più alla felicità. Quindi non so dare ragioni sociologiche ai dati sul suicidio, ma in questo romanzo cerco di indagare come si ponga nelle nostre vite il problema della felicità e perché spesso la felicità manca dove ci aspetteremmo di trovarla.

6. In una precedente intervista, dicesti che La Svizzera è fatta così: mezza urbana e mezza selvatica, mezza socievole e mezza solitaria. Trovo che siano le medesime caratteristiche di Elia Contini. Cosa ne pensi? C’è un legame forte tra il personaggio e il territorio?
A.: Sono d’accordo, c’è senz’altro un forte legame tra il personaggio e il territorio. Una delle caratteristiche della Svizzera italiana è che in una manciata chilometri si passi dalle nevi delle Alpi al microclima quasi mediterraneo del Locarnese, da una città di traffici e affari come Lugano alla zona di pianura quasi padana del piano di Magadino. Insomma, è un territorio che contiene tanti microclimi, diversi ambienti. È questa proprio una delle sue ricchezze. L’animo di Contini, diviso tra montagna e pianura, tra la solitudine e un lavoro che lo porta a contatto con gli altri, è senz’altro un modo anche simbolico di esprimere il territorio. Nello stesso tempo anch’io scopro talvolta in me stesso un’anima divisa tra il bisogno di solitudine e contemplazione e un’esigenza di contatto con gli altri, di scambio. Entrambi questi atteggiamenti sono del resto necessari al lavoro di scrittore. Non è però sempre facile coniugarli. A volte sento questa doppia anima come una lacerazione, a volte invece riesco a viverla in maniera più serena e positiva.

7. Hai pubblicato di recente 36 racconti, in “Succede sempre qualcosa”, Casagrande Editore, diversa per generi e stile. Ci racconti come è nata questa idea? Raccontando storie ci si nasconde? C’è un nesso, tra l’altro, tra uno di questi racconti e il tuo romanzo “Gli svizzeri muoiono felici”.
A.: “Succede sempre qualcosa” è un libro diverso da tutti gli altri che ho scritto e nasce da un’esperienza concreta. Seguendo l’esperienza di un biologo americano che aveva isolato un cerchio di un metro di diametro in una foresta del Tennessee e ogni giorno tornava in quel luogo per annotare i piccoli cambiamenti della natura, io ho scelto una piazzetta rotonda alla periferia della mia città e ho deciso di tornarci una volta al mese. Ogni mese quindi mi sedevo un paio d’ore su una panchina, ogni volta con un libro diverso. Stavo attento ai piccoli fatti, all’atmosfera, ai cambiamenti anche impercettibili e poi scrivevo un piccolo reportage dalla quotidianità. Così, mese dopo mese, sono nati dodici racconti che sono l’ossatura di “Succede sempre qualcosa”. Ho poi aggiunto ventiquattro storie tra quelle che ho scritto negli anni scorsi per riviste, giornali o antologie. Nessuno di questi è un poliziesco, ma si tratta di racconti di altro tipo: alcuni sono autobiografici, altri sono dei reportage. Una volta, per esempio, ho deciso di andare al carnevale partendo vestito “in civile” e sobrio da casa alle 4 del mattino, per cercare di capire il cuore segreto di questo divertimento. Alcuni altri sono invece racconti tradizionali, piccole storie. È un libro di racconti a cui tengo molto perché è stata per me un’occasione di usare la scrittura per andare a fondo di alcuni aspetti esistenziali che affiorano, certo, anche nei miei romanzi, ma indirettamente.

8. Quest’anno hai iniziato un progetto con Yari Bernasconi e una volta al mese viaggi verso Paradeplatz a Zurigo… ce lo spieghi com’è partito e che sviluppo sta avendo?
A.: Yari Bernasconi è un amico poeta che vive a Berna; con lui abbiamo avuto questa idea di darci appuntamento ogni mese a Paradeplatz, a Zurigo, una delle piazze più famose della Svizzera e probabilmente una tra le più ricche d’Europa. Lui viene da Berna, io da Bellinzona. Portiamo con noi ogni volta una poesia diversa: la leggiamo in piazza e restiamo lì per un paio d’ore. Prestiamo attenzione a ciò che accade fuori e dentro di noi, annotiamo tutto sui nostri taccuini e poi facciamo un racconto a due voci di questa esplorazione della piazza. È una modalità di scrittura a quattro mani interessante che permette di sperimentare stili e forme diverse ed è, in fondo, un taccuino di viaggio condiviso e poi arricchito nel blog da foto, audio e video.

9. Ho trovato delle similitudini tra un passaggio del tuo libro in cui parli della Sindrome di Wakefield: un racconto scritto due secoli fa da Nathaniel Hawthorne, nel quale un uomo esce di casa per un breve viaggio e non fa ritorno. Viveva nello stesso quartiere e spiava la propria famiglia. Viveva la sua vita dall’esterno, contemplando la sua stessa assenza.
Nel progetto con Yari Bernasconi, in fondo anche voi guardate l’esterno delle vite degli altri.
Cosa ne pensi?
A.: In effetti una delle cose mi muove e che mi affascina nella scrittura è proprio il tentativo di descrivere la quotidianità. Potrebbe sembrare strano questo interesse, visto che scrivo romanzi noir. Ma ho sempre ritenuto una forma di scrittura preziosa, seppure difficile, rappresentare in un testo il fluire della normale vita di ogni giorno. In fondo osservare, guardare, prestare attenzione alla realtà è il primo dovere di uno scrittore. Certo dopo un po’ ti accorgi che mentre stai osservando la realtà che ti circonda, piano piano cominci a guardare anche dentro te stesso.

10. Su invito del settimanale “Cooperazione” hai lanciato una nuova serie poliziesca: Zaynab e il commissario. Ce ne vuoi parlare?
A.: Questa serie è composta da micro racconti, perché lo spazio a disposizione sulla pagina del settimanale è breve. La dimensione del racconto molto breve mi ha sempre attirato, ma non avevo mai avuto l’occasione di sperimentarla in uan serie. I due protagonisti sono un ex commissario di polizia svizzero, molto anziano, che non essendo più del tutto autosufficiente e in accordo con la figlia decide di assumere una badante. La badante è Zaynab, una migrante tunisina da poco arrivata in Italia e poi in Svizzera. Si forma così una strana coppia di investigatori: l’anziano ex commissario, ancora vivace (molti suoi conoscenti vanno da lui per risolvere qualche problema), e la giovane fresca migrante tunisina, spontanea e desiderosa di conoscere la realtà nella quale è arrivata. Ci sono naturalmente anche degli screzi, delle difficoltà, delle incomprensioni ma la ricchiezza di questa coppia di investigatori sta proprio nella differenza. È la differenza il loro valore, è grazie alla diversità che riescono a essere efficaci, risolvendo i piccoli casi che vengono loro sottoposti. Qualche volta sono delitti veri e propri, altre volte si tratta di piccoli inciampi della quotidianità, di piccoli enigmi che Robbiani e Zaynab aiutano a risolvere.

11. Sei stato da poco all’Istituto Italiano di Cultura a Lima nella settimana della lingua e della cultura italiana. Hai girato in Perù, Ecuador e Colombia. A Quito, a 2800 metri, come si è trovato Contini? Un romanzo che parla della Svizzera e del deserto del Sahara letto in Perù. Un incrocio di luoghi diversi nel mondo di incontri e di persone. Quanta forza c’è nelle parole e nelle storie?
A.: A Quito Contini è salito addirittura fino a 4’000 metri e si è trovato bene… perché in quest’aria pura e rarefatta, nell’altitudine, nel silenzio, in una circostanza in cui può osservare le cose dall’alto e contemplare il mondo, Contini si trova sempre a suo agio. Questo giro di conferenze in Sudamerica è stato molto arricchente soprattutto per i numerosi incontri che ho potuto fare. L’impasto culturale era molto variegato e alla fine ho scoperto che la curiosità reciproca era ciò che rendeva vitali le conferenze, i laboratori di scrittura, le interviste, i momenti di scambio che ho potuto vivere. C’era la curiosità di chi ascolava nei confronti di un romanzo che al suo interno miscela diverse culture e diversi sguardi sul mondo, e c’era la curiosità mia di capire la reazione di lettori tanto lontani nello spazio. Ci sono stati anche dei momenti di commozione, come quando una ragazza a Quito si è trovata a scrivere un testo molto personale, molto profondo, che parlava della luna piena senza aver mai letto o conosciuto Leopardi, ed esprimendo delle parole e dei sentimenti molto simili. È proprio veto che nell’ambito della letteratura, delle parole e della poesia non ci sono confini di spazio, di tempo, di genere o di cultura.

12. Radio, tv e tam tam: questo è il titolo di un articolo sul tuo blog, dove parli del tuo lavoro in radio e di come le parole abbiano bisogno di prudenza, non solo quelle scritte. Ti sei posto un interrogativo: “Perché dico parole alla radio?” Ecco, ti sei dato una risposta?
A.: È una domanda difficile, non solo per quanto riguarda la radio, ma anche per quanto riguarda i libri e gli articoli di giornali che mi capita di scrivere e le parole pronunciate durante le conferenze e le presentazioni. In realtà io sono una persona silenziosa e ho un’indole abbastanza riservata. Non è mai stato facile per me avere fitti rapporti sociali con le persone, e forse proprio per questo ho sempre considerato la parola scritta e anche la parola pronunciata alla radio come un veicolo privilegiato per creare dei ponti fra me e gli altri, fra me e il mondo, che mi permettano di capire meglio me stesso e la realtà.
Per quanto riguarda chi accoglie le mie parole, la domanda è ancora più delicata. Perché a qualcuno dovrebbero interessare le mie storie? In parte c’è una ragione professionale: usare le parole è il mio mestiere, è ciò che so fare e cerco di farlo al meglio. In parte ritengo che le parole siano sempre uno strumento di ricerca: io non scrivo né parlo per riferire qualcosa che so, ma l’esercizio della scrittura, così come il mio lavoro alla radio, sono uno strumento per arrivare alla conoscenza. E mi auguro che insieme a me, le parole, aiutino a far arrivare a una migliore conoscenza di sé stessi e del mondo anche i lettori o gli ascoltatori.

13. Hai scritto: “Sono convinto che, se potessimo giungere alla fine dell’universo, al limite remoto del big bang, ai bordi del continuum spazio temporale, laggiù dove svanisce la luce di cinquecento miliardi di galassie, proprio là troveremmo – come ultima propaggine di materia e avamposto estremo della quotidianità – una panchina. “ Parlami di questa panchina.
A.: È una panchina molto misteriosa. L’ultima panchina prima del nulla…Ne ho scritto sul mio blog perché un altro dei miei progetti di scrittura, che si chiama “Panchinario”, riguarda proprio le panchine pubbliche. Ho una rubrica su un giornale e uno spazio anche sul blog, dedicato a quelle che chiamo “le mie panchine”. Sono praticamente piccole recensioni di panchine: metto una fotografia, do una valutazione da 1 a 5 stelle per la comodità e per la vista, aggiungo le coordinate geografiche per poter trovare la panchina e poi scrivo “luogo ideale per…” (per sognare, leggere questo autore, per ascoltare questa canzone, per ricordare la propria infanzia). Infine scrivo un breve testo che evochi l’atmosfera della panchina o che prenda spunto dal luogo per una divagazione narrativa. Presentando i testi che di settimana in settimana escono nella rivista e nel blog, mi è venuto in mente che in fondo queste panchine pubbliche sono un segno di umanità, di cordialità. Rappresentano un invito alla sosta, alla pausa, a strapparsi fuori per un attimo dalla catena di necessità incombenti e a ritagliarsi uno spazio per pensare o per fantasticare. Secondo me, ovunque ci siano segni di vita, ovunque scorra il tempo, prima o poi qualcuno costruirà una panchina… anche ai confini dell’universo. E questo è molto bello: le panchine sono piccole isole filosofiche nel reticolo dei nostri percorsi quotidiani.

Intervista a cura di Cecilia Lavopa