Intervista a Fabio Girelli

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Fabio Girelli è nato a Biella nel 1980 ed è laureato in Lettere moderne. Ha pubblicato i thriller Tutto il villaggio lo saprà, Marmellata di rose (Premio Micro-editoria italiana 2014), tradotto e pubblicato anche in Spagna con la catalana Sd Edicions, e L’autore, pubblicato da Golem Editore. Per Piemme sono usciti l’e-book Il bacio della Velata (2017) e il romanzo Il settimo esorcista (2017). È tra i fondatori del collettivo Torinoir. Racconti e poesie sono stati pubblicati in diverse antologie per Lineadaria Editore, Lettere Animate, Golem, Pendragon, Ef edizioni e Robin edizioni.

Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo romanzo “La pelle del lupo”, Edizioni del Capricorno. Leggete un po’ cosa ci ha raccontato:

1. Bentornato, Fabio su Contorni di noir e grazie per la tua disponibilità. Partiamo con una domanda di rito. Com’è nato questo ultimo romanzo con protagonista il vicequestore Andrea Castelli?
F.: Grazie a voi per l’ospitalità. Questo romanzo nasce da diversi spunti, arrivati nel corso del tempo. Su tutti però a ispirarmi fu un fatto di cronaca realmente accaduto un paio di anni fa: a Torino, una mattina, la pelle di un camoscio scuoiato venne ritrovata appesa ai rami di un albero di una delle principali vie della città, di fronte a due scuole. Questo gesto, apparentemente inspiegabile e crudele, mi suscitò strane sensazioni, tra cui un’inquietudine pungente. E così ho lasciato che questo bizzarro ritrovamento mi trascinasse attraverso leggende alpine e misteri vaticani.

2. “La pelle del lupo” in una trama così ricca di leggende e misteri, così popolata da uomini riconducibili a bestie, assume connotati particolari. Ce ne puoi parlare senza svelare troppo?
F.: Si tratta di una domanda che prevede una vasta risposta. Diciamo, per amore di sintesi, che volevo parlare di certe figure e di certi personaggi che hanno popolato la mia infanzia, individui disseminati tra le vallate che mi hanno generato e nutrito, molto più simili alla natura che li ha prodotti che alla civiltà da cui non sembrano esser stati raggiunti. Uomini e donne più vicini alla mitologia che al pragmatismo contemporaneo, alla favola e appunto alla leggenda. Ma si tratta di una mitologia sporca, impastata nel fango e nel letame, da cui sorgono figure storte e derelitte, senza direzione, che rotolano nella vita come massi dalla montagna. Tutto questo mi ha fatto pensare ai bestiari medievali e a Castelli come a un esploratore di anime nere, che dovesse scoprirle e catalogarle senza però comprenderle.

3. Durante la lettura affiorano alcune tra le tue passioni che hai sapientemente inserito ad infondere sostegno alla trama, ma che contribuiscono anche ad arricchirla con un fascino particolare. La poesia e i tarocchi. Cosa ci racconti al riguardo?
F.: La poesia è la prima forma di letteratura a cui mi sono avvicinato in modo diciamo accademico, studiandola e amandola. La poesia è un modo per raccontare la realtà, sempre che essa esista, guardandola con occhiali diversi e definendola con una grammatica che allo stesso tempo sia chiara e imperscrutabile. Come diceva Montale: “Questo possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, quindi al poeta non resta che la possibilità di interpretare la realtà al pari della veggente che nei tarocchi legga i segni di un futuro che le appare attraverso simboli ermetici, indefinito e indeterminabile, in cui il solo fatto di tentarne una lettura lo modifica, come accade nella fisica quantistica: è la natura stessa a porre i limiti della nostra comprensione. Ci resta un senso di vaghezza che forse solo una metafora, più che un numero, riesce a dischiudere nell’essenza.

4. Il vicequestore Andrea Castelli durante questi romanzi è cambiato. Com’è mutato davanti ai tuoi occhi e quanto spazio si è preso nei tuoi giorni e nelle tue notti?
F.: Il percorso del personaggio, intimo e psicologico, dipende, come per le persone reali (ma per me è difficile distinguere con precisione chi siano i primi e quali i secondi) da quel che la vita gli riserva. Quindi l’animo si plasma a forza di botte e carezze, di amore e disillusioni, fintanto da diventare ciò che altro non poteva essere: egli stesso. Sono i dialoghi e le azioni, sue e altrui, a modellarlo dentro e fuori. Questo non è studiato a tavolino, avviene perché avviene, mentre scrivo, cercando di essere verosimile e aderente a ciò che chiamiamo vita.

5. Questa volta si trova a fare i conti con un sentimento nuovo, che magari credeva di non riuscire a provare ma al quale ha dovuto fare spazio ed imparare a gestirlo. E’ stata una scelta che sentivi necessaria a questo punto della vita del tuo protagonista, dopo tutto quello che si è ritrovato a vivere?
F.: La citazione iniziale del libro viene da Viaggio al termine della notte, romanzo che leggevo proprio mentre stavo scrivendo il mio. Ora mi si chiede dell’amore, questo nuovo sentimento che investe Castelli. E di nuovo vorrei rispondere citando Celine: “L’amore è l’infinito portato al livello dei barboncini”. Ecco, questa è la migliore definizione possibile, anche dovendo parlare della gestione emotiva della scoperta di una donna che sembra sconvolgergli la vita. Alla fine, a ben vedere, per Castelli nulla cambia e lui rimane ciò che è sempre stato. Come dopo un temporale gli alberi si rialzano e i fiori tornano a spuntare, le pozzanghere si asciugano e di tutto quel rumore non resta che un qualche freschezza nell’aria. Ma spero che il lettore non pretenda da me una lettura profonda né dell’amore né tanto meno di altre questioni produttrici di infinite domande sin da quando l’uomo può dirsi uomo: nessuno ha mai trovato risposte, figuriamoci io, che scrivo romanzetti da ombrellone.

6. Parliamo del linguaggio che hai usato. Della maggiore maturità artistica che affiora dalle tue pagine. E’ stato un processo naturale o frutto di un esercizio costante? E in questo caso come ti poni nel confronto dello scrivere: come, quando e dove lo fai?
F.: Scrivo quando capita, quando ho tempo, non ho una routine precisa, e credo si noti, almeno lo noto io, in certe mancanze narrative e stilistiche che chi si definisce scrittore non dovrebbe avere. Io, fortunatamente, non mi sono mai definito tale e posso andarmene in giro con la coscienza a posto. L’evoluzione dello stile credo faccia parte del percorso di ognuno di noi: così come non parliamo come quando eravamo bambini penso che non dovremmo scrivere come facevamo agli inizi, poiché tutto cambia e a volte, con una certa dose di fortuna, migliora anche. Spero di esser stato fortunato.

7. Sono molti i temi affrontati. Qual è quello che ti sta più a cuore e che speri abbiano recepito i tuoi lettori?
F.: Io mi auguro principalmente che il lettore si diverta, con le mie storie. Che trascorra qualche ora piacevole, senza annoiarsi, ed è già molto, visto che per avere il mio libro tra le mani si è dovuto privare di alcuni euro che prima stavano nel suo portafogli. Se poi qualche riflessione dovesse nascere, leggendomi, ecco, la speranza è almeno di non far troppi danni tra i pensieri dello sventurato o della sventurata, perché della vita e delle cose che accadono ne capisco molto meno di quanto mi piacerebbe.

8. Forse è presto per parlare di progetti futuri visto che il libro è uscito da poco, ma sei già al lavoro su un nuovo romanzo o cosa ti piacerebbe fare e raccontare?
F.: Questo sarà il mio ultimo romanzo, al momento non prevedo di scrivere ancora, ho appeso il PC al chiodo, per così dire, anche se non l’ho realmente fatto in quanto, come il lettore potrà constatare se decidesse di tentare l’operazione a casa propria, nonostante io lo sconsigli vivamente, essa produrrà spiacevolissimi effetti sul dispositivo elettronico. Ma ci siamo capiti, insomma.

Intervista a cura di Federica Politi