Stefano Corbetta è nato a Milano nel 1970. Alla professione di arredatore di interni ha affiancato una lunga esperienza come batterista jazz, per approdare poi alla scrittura. Ha pubblicato due romanzi: Le coccinelle non hanno paura (Morellini, 2017) e Sonno bianco (Hacca, 2018). È stato incluso nell’antologia Lettere alla madre (Morellini) e nelle raccolte di racconti Polittico (Caffèorchidea) e Mosche contro vetro (Morellini).
Lo abbiamo fatto intervistato per farci raccontare alcune curiosità sul romanzo appena uscito per Ponte alle Grazie, “La forma del silenzio“:
1. Benvenuto su Contorni di noir e grazie per la tua disponibilità. Iniziamo con una domanda di rito. Da quale idea è nato lo spunto attorno al quale hai sviluppato il tuo nuovo romanzo “La forma del silenzio”, edito da Ponte alle Grazie?
S.: Grazie a te, è un piacere essere qui in Contorni di noir. Guarda, l’idea si è sviluppata attorno a una semplice immagine, un uomo e una donna che, seduti a un tavolo, comunicavano attraverso la Lingua dei segni. Dopo aver scritto il romanzo, due anni dopo, mi sono accorto che quell’immagine era stata un’elaborazione di alcuni elementi di un film che avevo visto durante le settimane in cui avevo scritto la prima stesura, ma senza che me ne rendessi conto davvero, una sorta di processo inconscio di selezione. Il film era Arrival di Denis Villeneuve.
2. Protagonista del romanzo è una famiglia che si trova ad affrontare prima la malattia di un figlio, la sordità bilaterale, in anni in cui il linguaggio dei segni non era una realtà affermata come lo è oggi, e poi la sua scomparsa. Ce ne puoi parlare?
S.: La scoperta della sordità di Leo costringe tutti a fare i conti con un processo di sottrazione. Il bambino non può comunicare verbalmente, è come se fosse opaco, impalpabile, e comprenderlo richiede uno sforzo inaspettato che contempla necessariamente il fallimento. Leo sfugge, suo malgrado. Così nasce tra loro un lessico privato, preludio alla Lingua dei segni che si presume potrà essere imparata a scuola. Di fatto però le cose andranno diversamente perché negli istituti per sordi è stato introdotto l’oralismo a causa delle decisioni del Congresso di Milano del 1880 e Leo si ritrova isolato, di nuovo, ma in una forma più radicale. Infine, Leo scompare, una sottrazione assoluta, l’assenza più insostenibile perché sospesa, potenzialmente non definitiva. Da tutto questo, la risalita.
3. Anna, la sorella del piccolo Leo, è un personaggio forte che ricostruisce sé stessa attorno alla scomparsa del fratello. Che forma potremmo dare al rapporto che c’era tra i due all’interno della famiglia?
S.: Anna è la sola che riesce a entrare nel silenzio di Leo, il loro è un rapporto che ha il suo equilibrio nella fragilità di Leo e la promessa che Anna fa a lui e a sé stessa, cioè quella di non lasciarlo mai solo, di proteggerlo. Quando Leo scompare, Anna sente nascere in sé il senso di colpa per aver fallito e questo sentimento l’accompagnerà fino al giorno in cui Michele la costringerà a ritornare a quei diciannove anni prima, nella notte di dicembre in cui Leo svanisce nel nulla.
4. Per raccontare la quotidianità degli studenti all’interno dell’Istituto per sordi che frequenta il protagonista prima di scomparire, come ti sei documentato al riguardo e hai scoperto qualche curiosità che nemmeno tu conoscevi?
S.: Ho cercato foto e materiale di archivio che riguardassero l’istituto Tarra nel periodo in cui si svolge la vicenda, cioè negli anni Sessanta. Sono anche stato all’interno della scuola e nonostante molti ambienti abbiano un aspetto diverso, camminare nei corridoi della scuola, guardare la luce nel grande cortile, osservare a è stato importante per alimentare la mia immaginazione
Come ti dicevo prima, il fulcro della storia ruota attorno al divieto dell’uso della Lingua dei segni e devo dire che questa scoperta ha orientato la storia in modo determinante. In particolare, c’è stato un libro che mi è stato particolarmente di aiuto, Vedere voci di Oliver Sachs. Leggerlo mi ha permesso di entrare in modo più chiaro nel mondo dei sordi.
5. Come cambia la tua scrittura a seconda dell’ambito in cui ti cimenti, narrativa, musica o teatro?
S.: A essere sincero non ho mai scritto per il teatro, a parte qualche riduzione che è stata messa in scena a fine corso quando frequentavo i corsi serali qui a Milano. Posso però dire che se penso alla musica, il processo di ideazione per me è simile a quello che metto in atto se devo scrivere una storia. Una breve melodia può essere sviluppata in molte direzioni, così come un’immagine può allargarsi fino a diventare una storia. Quello che voglio dire è che in entrambi i casi non ho mai un’idea definita di quello che voglio scrivere, ma procedo molto per improvvisazione, diciamo così, lasciando che ogni passo porti al successivo permettendomi di avere una libertà molto maggiore rispetto a quella che avrei se avessi un’idea già fissata. Ci sono dei rischi, questo sì, ma mi sembra un processo interessante.
6. Cosa ti piaceva leggere da ragazzo?
S.: I libri non mi interessavano, non leggevo quasi niente da ragazzo, se non quello che al liceo mi veniva chiesto di leggere. A tredici anni volevo fare il tennista e passavo quattro ore al giorno sui campi da tennis, tanto che a scuola non brillavo, finendo per prendere esami a settembre fino alla quarta liceo, quando i medici mi annunciarono che avrei dovuto lasciare lo sport agonistico per un’anomalia cardiaca. Così cambiai rotta e mi misi in testa di diventare musicista, cosa che mi è in parte riuscita. In quel periodo, dai venticinque anni in poi, iniziai a leggere molto, per mio interesse personale, soprattutto autori russi, Dostoevskij su tutti.
7. E tu se dovessi consigliare uno dei tuoi libri a un giovane lettore quale sceglieresti e perché?
S.: Credo che La forma del silenzio sia il libro che mi rappresenta di più ed è quello con il maggior ritmo. La trama si avvicina al genere giallo e questo lo rende forse più scorrevole rispetto agli altri, per cui credo che sarebbe più semplice per un giovane entrare nella storia e seguire Anna nella ricerca di suo fratello.
8. Qual è il personaggio del tuo ultimo libro che ti piace di più, magari qualcuno che ti piacerebbe portarti dietro anche in nuove storie?
S.: Sicuramente Giordano, l’artigiano di bottega che viene accusato di essere il responsabile della scomparsa di Leo. È un uomo del silenzio, osserva il mondo con gli occhi di chi è in perenne ricerca e concepisce il suo lavoro come il luogo in cui trovare risposte.
9. Cosa hai preso da Milano e cosa ha dato a te questa città a livello di ispirazione?
S.: Più che Milano è la periferia che mi ha ispirato maggiormente. Negli anni Sessanta l’istituto Tarra non era inglobato nella metropoli come lo è ora e i campi, le cascine, gli spazi vuoti della periferia, i luoghi dove Michele è nato e cresciuto, mi hanno sempre affascinato molto di più che la città con i suoi spazi stretti e il grigio del cemento. Il silenzio non abita la città, il silenzio è della natura.
10. Ce l’hai un posto del cuore dove di solito ti metti a scrivere o solo a raccogliere le idee?
S.: Adoro camminare nei campi che circondano casa mia, l’ho sempre fatto, mi aiuta a vedere quello che devo scrivere, poi rientro e mi metto alla scrivania.
Intervista a cura di Federica Politi e Antonia Del Sambro