Intervista a Carlo Lucarelli

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Carlo Lucarelli (Parma, 1960) è autore di romanzi, saggi e sceneggiature. Tra i suoi libri pubblicati per Einaudi , Almost Blue (1997), Un giorno dopo l’altro (2000), Guernica (2000), Nuovi misteri d’Italia (2004), La mattanza (2004), Piazza Fontana (2007), L’ottava vibrazione (2008), L’ispettore Coliandro (2009), I veleni del crimine (2010), L’ispettore Grazia Negro (2013), Albergo Italia (2014), Carta bianca (2014), Il tempo delle iene (2015), L’estate torbida (2017), Peccato mortale (2018), Navi a perdere (2018), L’inverno piú nero (2020), Via delle Oche (2021) e Léon (2021). Per molti anni ha condotto trasmissioni televisive in cui ripercorreva celebri casi criminali esaminandone gli aspetti rimasti oscuri.

E proprio in occasione del suo nuovo romanzo, Léon, pubblicato da Einaudi, gli abbiamo rivolto qualche domanda:

1. Benvenuto su Contorni di noir e grazie per la tua disponibilità. Ecco la domanda di rito con cui ci piace iniziare per riscaldare l’atmosfera. Com’è nata l’idea da cui hai tratto spunto per scrivere questo nuovo romanzo?
C.: Ce l’avevo in testa da un po’, vedevo questa scena di Grazia che in quello che dovrebbe essere il momento più bello della sua vita viene portata via di corsa perché è scappato l’Iguana. Altro non sapevo, e l’ho scoperto piano piano, pensandoci prima e soprattutto dopo, quando ho cominciato a scrivere. Il senso del romanzo l’ho trovato pagina dopo pagina.

2. Come sono cambiati i personaggi di Grazia e Simone rispetto ai primi romanzi?
C.: Sono cambiati parecchio. Uno l’avevo perso, perché in “Un giorno dopo l’altro” e “Il senso di volare” Simone era scivolato su un piano secondario, piuttosto succube delle decisioni di Grazia e limitato a “vedere” con il senso dell’udito. Una delle spinte a scrivere questa storia è stata la voglia di ritrovarlo, in un’altra situazione e con un altro punto di vista. Diverso, insomma. Grazia ha avuto un’evoluzione più lineare, anche se ho scoperto cose nuove su di lei. Pensavo che il suo problema fosse la contraddizione tra essere mamma ed essere poliziotto, poi, un giorno, raccontando di questo romanzo che stavo ancora scrivendo, una giovane donna e mi dice “io sono tutte e due”, mamma di due figli e capo della mobile di quella cittadina. Così ho capito che Grazia è mamma e poliziotto in un modo estremo, e anche per lei un po’ folle, malato.

3. Ci dici in Léon che a Grazia, quello che interessa è la caccia al serial killer, “prenderli, non capirli”. Quali sono invece le motivazioni di Carlo Lucarelli quando inizia a tracciare le prime fasi di quella che diventerà un’indagine?
C.: Vedere come va a finire. C’è un motivo – letterario, morale e anche politico – per cui si scrive un romanzo, ma lo scopo della mia indagine, alla fine, è proprio scoprire come va a finire. Cosa c’è dietro a tutto. Come si diceva una volta: chi è stato.

4. Altro fatto che m’incuriosisce è quello della costruzione del killer, o del serial killer in questo caso. Come nasce di volta in volta questa figura nei tuoi romanzi e come la caratterizzi fino a farla sembrare agli occhi dei lettori così reale?
C.: Per me il serial killer è un modo per raccontare il disagio di una società o di un periodo, come poi è effettivamente nella realtà. Non l’ho mai concepito come un effetto speciale o alla moda, operazioni comunque legittime. Nei romanzi con Grazia c’è sempre un serial killer che esce dalla metà oscura, proprio come i “mostri” delle favole. Salvo poi scoprire che così mostro non è, o almeno non è il solo e non è tutta colpa sua. Se sembrano reali è perché mi consulto con chi se ne intende più di me, come Massimo Picozzi o Corrado De Rosa. Per “Almost Blue”, assieme ad un mio amico psichiatra dell’ospedale di Imola facemmo una perizia psichiatrica vera su un personaggio inventato, che era l’Iguana.

5. In questo romanzo, come in altri, si sente forte il legame con la musica. È una fonte d’ispirazione come si legge anche nei tuoi ringraziamenti a fine libro. In che maniera “contamina” i tuoi testi?
C.: La musica è presente perché noi tutti viviamo con una costante colonna sonora in testa e perché è un ottimo modo per descrivere un momento storico e il suo spirito. Nei romanzi con Grazia, però, è di più. È l’anima della storia che racconto e la scopro sempre all’improvviso. In questo caso avevo in mente l’immagine iniziale della storia, la nuova situazione di Simone e qualche elemento sparso, sia a livello di trama che letterario. Poi, mentre guardavo “X Factor” alla tv, arrivano i Melancholia che si mettono a cantare “Leon” e all’improvviso mi esplode tutto davanti agli occhi, tipo Big Bang. Una sensazione così forte e così entusiasmante l’avevo provata solo quando ho incontrato “Almost Blue” nella versione di Chet Backer. È come una chiavetta che mette in moto e la storia parte, inarrestabile.

6. La storia della letteratura ci ha mostrato molti famosi e riusciti casi di antroponimia letteraria. Come scegli i nomi dei tuoi protagonisti? E secondo te qual è uno di quelli che meglio si addicono al personaggio?
C.: Di solito cerco un cognome che possa sembrare un nome, in modo da non dover cercare anche un vero nome di battesimo. De Luca, Coliandro, Marino o Romeo, per esempio non ce l’hanno e volutamente. La loro caratteristica sta nell’essere detective da romanzo giallo, ossessionati a loro modo dall’indagine, per cui il loro nome è come se fosse Commissario o Ispettore. Quello di Grazia, invece, è nato in un modo diverso. L’ho rubato ad una mia amica, che mi è servita come modello per il personaggio, e che ad un certo punto è entrata nella storia praticamente con tutta la carta d’identità. La vera Grazia Negro fa tutt’altro, è una musicista, e la mia ha ormai preso la sua strada, ma il nome me lo sono tenuto. Che anche quello, così breve, così tagliato, è come se fosse un nome unico: Grazianegro.

7. Ti sei accorto che il tuo stile cambia quando parli di Grazia? Quanto è voluta questa cosa e quanto invece è del tutto istintiva?
C.: Ogni romanzo – e quindi ogni serie – ha il suo stile e la sua voce, o almeno così spero. I romanzi con Grazia hanno quella, con un’alternanza tra prima persona e terza e un punto di vista dentro le cose, molto istintivo e legato ai sensi. Un po’ crudo e un po’ angosciato. Ruvidamente e malinconicamente lirico. Oddio, vorrei che fosse così… forse sto solo mettendo i fila un po’ di aggettivi a caso.

8. Nella serie di Negro c’è una Bologna quasi vista da lontano, quasi sfocata. Perché questa scelta?
C.: Negli altri romanzi di Grazia tra le mie intenzioni c’era anche quella di raccontare la mia idea di Bologna e delle sue trasformazioni. Non tanto attraverso descrizioni, che per una città contemporanea sarebbero state spesso inutili: i portici sono i portici, dovessi raccontare quelli bombardati e affollati del ’44, allora averi la necessità di descriverli minuziosamente, come credo di aver fatto, ma quelli di oggi sicuramente meno. Volevo raccontare l’anima della città come la sentivo io, come avevo fatto in “Almost Blue”, questa città non è quello che sembra, ma in questo romanzo non c’era spazio per farlo, perché quasi tutta la storia si svolge dentro la testa dei personaggi e nei luoghi in cui si sono rinchiusi. Così ho preso un personaggio che fosse in grado di uscire -Roberto, il mio amico taxista, anche lui rubato alla realtà- e gli ho fatto esprimere una specie di dichiarazione d’amore, molto semplice: Bologna è la più bella città del mondo.

9. Se dovessi decidere di spostare la tua protagonista in un’altra città e in un’altra Questura che località sceglieresti e perché?
C.: Non lo so. Ci vorrebbe un posto in cui Grazia non possa sfuggire ai suoi “mostri”, un posto che, appunto, non è quello che sembra, metà nido e metà incubo. Bologna, insomma. Non potrei spostarla a Milano o Roma, perché sono città che dovrei conoscere e che invece imparo dai loro autori, che sono bravissimi, e lo stesso vale per Torino. Potrebbe essere una città sempre dalle mie parti, come Rimini o Ravenna, o qualcosa in Toscana, anche se non Firenze, che ha già i suoi grandi autori. E neppure la Sardegna, per gli stessi motivi. Il bello del noir italiano è che stiamo raccontando benissimo tutto il nostro paese, per cui meglio che me ne resti dalle mie parti.

10. Dai un colore a Léon, all’intero romanzo.
C.: Quel rosso-arancione-fucsia così brillante che sta in copertina. C’è il senso di tutta la scintillante, assurda e veloce follia che volevo mettere nella mia storia.

Intervista a cura di Federica Politi e Antonia Del Sambro, “Due nel mirino”