Milvia Comastri – Sangue di Giuda

1848

Editore Giraldi / Collana Uplit
Anno 2019
Genere Noir
258 pagine – brossura

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Si fa fatica a credere che Sangue di Giuda sia il primo romanzo di Milvia Comastri. Sì, perché appena si comincia a leggere e si entra fra le pieghe di questa famiglia praticamente tutta al femminile, il romanzo scivola come il ferro caldo sulla camicia, e si fa fatica a smettere.
L’autrice ha pubblicato tre raccolte di racconti e si percepisce quanto le abbiano sicuramente fatto acquisire la padronanza del linguaggio, la sensibilità delle storie, la necessità di introspezione nei caratteri dei protagonisti.
Il libro parla di Celeste, una “vecchia signora”, chiusa in casa ormai da quarant’anni con l’apatia addosso, arida di stimoli che le permettano di vivere normalmente, reduce da un passato che le ha distrutto il fisico e il cuore. La sua vita ha influito sulle generazioni future di figlie e nipoti, ma anche sugli uomini che hanno attraversato il suo passato.
Non c’è niente là fuori, se non il male.

Celeste, che si era sposata nel 1949 con Vincenzo, desiderosa di vivere tutta la vita insieme allo stesso uomo, servirlo e non tradirlo mai.
Se vuoi tenerti un marito, ricordati che la camera da letto è come un cantiere, il matrimonio è lì che si costruisce, dalle fondamenta al tetto. Tutto il resto son fregnacce.
I capitoli vengono intitolati con “Pensieri” – raccontati con l’io narrante di Celeste – o con il nome delle donne protagoniste del romanzo. Ci sono, oltre Celeste, Assunta, Nadia, Mira. Nell’ordine: le due figlie e la nipote.
Vivono tutte insieme nella stessa casa, ma è su Assunta cui fanno affidamento per qualsiasi cosa.
Da quando aveva undici anni.
Nadia e la sua voglia di lavorare nel cinema, peccato che quando aveva vent’anni girava con il suo ebook e veniva sfruttata con false promesse e a quarant’anni non era cambiato nulla.
Poi c’è Mira, con Il buio oltre la siepe e le poesie di Erri De Luca nello zaino. Vuole scappare da quel paese di case vecchie, con facce di vecchi, e arrivare al mare per lasciare le sue impronte sulla sabbia bagnata.
Un gruppo di donne che, seppure unite da legami di sangue, sembrano vivere su pianeti diversi, parlano la stessa lingua ma non si capiscono, condividono la stessa casa ma non si incontrano mai.
Le storie che si intersecano costringono il lettore a prendere le parti per l’una o per l’altra donna, senza riuscire però a patteggiare per qualcuna in particolare. Le esperienze, o meglio gli errori, di questi personaggi femminili sono diversi, eppure c’è un obiettivo comune: quello di essere amate, rispettate, decidere in autonomia le proprie scelte e i propri amori.
Eppure, in fondo, ognuna dipende dall’altra, sbagliano e cadono come un effetto domino. Ma la forza straordinaria insita in loro le costringerà, volenti o nolenti, a riconoscere negli eventi tragici una sorta di rinascita, di ulteriore possibilità, di una “resurrezione dell’anima”.
Milvia Comastri, seppure come ho spiegato all’inizio sembra avere un’esperienza molto più lunga come scrittrice per il suo stile narrativo, riesce a stendere le pieghe della vita con un sol colpo.

Cecilia Lavopa

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La scrittrice:
Milvia Comastri ha pubblicato tre raccolte di racconti: Donne, ricette, ritorni e abbandoni (Pendragon 2005), Colazione con i Modena City Ramblers (Historica 2012), Squilibri (Antonio Tombolini Editore 2014) e suoi contributi sono presenti in molte antologie. Questo è il suo primo romanzo.