Marcello Fois (Nuoro 1960) vive e lavora a Bologna. Tra i tanti suoi libri ricordiamo Picta (premio Calvino 1992), Ferro Recente, Meglio morti, Dura madre, Piccole storie nere, Sheol, Memoria del vuoto (premio Super Grinzane Cavour, Volponi e Alassio 2007), Stirpe (premio Città di Vigevano e premio Frontino Montefeltro 2010), Nel tempo di mezzo (finalista al premio Campiello e al premio Strega 2012), L’importanza dei luoghi comuni (2013), Luce perfetta (premio Asti d’Appello 2016), Manuale di lettura creativa (2016), Quasi Grazia (2016), Del dirsi addio (2017 e 2018), il libro in versi L’infinito non finire (2018) e Pietro e Paolo (2019).
L’autore sarà presente il 25 luglio, alle 21.30, al festival Giallo di sera a Ortona (CH), moderatore Romano De Marco. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa di lui e dei suoi romanzi:
1) I tuoi primi romanzi risalgono agli anni ’90. Ma come nasce Marcello Fois come autore? Il desiderio di scrivere, di raccontare una storia è sempre stato latente in te o è affiorato avvicinandoti ad un’età più matura? E di conseguenza che tipo di lettore sei diventato?
M.: Io credo di essere diventato innanzitutto un lettore, è una cosa strana… Sono stato molto precoce come lettore e per carattere avevo un atteggiamento molto narrativo, fantasioso nei confronti delle cose. Però il risultato non è stato quello di trasformarmi in scrittore ma un lettore, sono stato avido per un sacco di tempo.
A un certo punto è scattata una sorta di strana “invidia”, l’idea che si potesse generare in qualche lettore lo stesso tipo di passione, di meraviglia che avevo io quando leggevo, quindi non mi bastava più leggere, volevo che ci si appassionasse a qualcosa che avevo scritto io. Anche se in verità le primissime prove di scrittura, di fiction, credo siano cominciate verso i dieci/undici anni con quelli che definivo romanzi ma erano di una pagina e mezzo. Ma non erano proprio pensierini o temi in classe, ma storie con vere e proprie trame, dal mio punto di vista.
2) Sei nato in Sardegna ma vivi e lavori a Bologna. Nei tuoi romanzi la tua isola è spesso presente. Che rapporto hai con questa bellissima terra e quanta importanza riveste nell’impronta che dai ai tuoi romanzi?
M.: È una domanda a cui non so davvero rispondere. Io non l’ho mai posta come faccenda etnica o antropologica, ma più tecnica: tu hai un territorio, uno spazio, un luogo d’azione e usi quello, per intenderci. Tutti i romanzi di Dostoevskij sono ambientati a San Pietroburgo. Non che mi voglia paragonare a lui, ma per dirti che il dato geografico non è sempre così saliente come spesso pensiamo. E’ un’idea tutta italiana, siamo noi che abbiamo un’idea molto frammentaria del nostro paese, sono tutte piccole patrie. Il mio intento era quello di risparmiare energie partendo da uno spazio preciso, certo, che conoscevo già.
E poi non ho mai sentito nessun tipo di differenza, non sono di quelli che pensano che il romanzo conti se sia ambientato da una parte o dall’altra. Per me potrebbe essere a Los Angeles o Abbiategrasso e sarebbe la stessa cosa, se un autore è bravo il lettore non ci fa caso.
3) Quando ho letto la trilogia dei Chironi, ho avuto una specie di folgorazione. Per l’intensità di sentimenti e di emozioni che questa saga smuove attraverso il tempo ma anche per la cristallina bellezza del tuo stile narrativo, laddove le influenze classiche assumono in te nuova luce e splendore, arrivando a creare con le parole immagini di puro lirismo. Puoi raccontarci com’è stato scrivere questi tre libri? Se ce n’è uno tra questi che ti è costato più fatica e perché? E come ti sei sentito dopo aver scritto l’ultima parola?
M.: Inizio dalla fine della tua domanda: mi sono sentito svuotato. Io ce li ho in testa in maniera molto unificata, il progetto era unificato, però dopo averne discusso in casa editrice con Ernesto Franco abbiamo deciso di scrivere tre volumi, perché potessero entrare più lentamente. Alla fine Einaudi li ha riuniti in un unico tascabile, sono ritornati alle origini.
Mi è costata tanto questa opera, penso che quello sia stato il minimo sindacale per uno scrittore per impegnarsi ad occupare un posto che non c’è. Uno scrittore che è indispensabile perché sa dire cose che tu non diresti, quindi mi sembra strano che oggi si consideri positivo il fatto che uno scriva come un altro scrittore. Che utilità c’è?
Se uno è arrivato a un certo punto del suo mestiere, dovrebbe aver acquisito un proprio stile, cosa che magari oggi non è così evidente, non si recepisce.
L’altro giorno ho sentito in televisione un’intervista a Leonard Bernstein che era bellissima: diceva che lui non era Pierre Boulez, non era Berio, era un musicista che usava la musica tonale, che vuole fare la melodia. Allo stesso modo sono uno che se devo usare la musica sperimentale la uso.
Io mi sento così: uno scrittore tutto sommato tradizionale, uno che però è anche nel proprio tempo, dentro questa apparente struttura tradizionale si è permesso di sperimentare che altri non si sono permessi affatto. Ci vuole la volontà di rimanere, di esserci.
4) In “Nel dirsi addio”, un libro che ho molto amato per il modo in cui mi ha lasciata ad interrogarmi sulla morte, sui modi in cui è necessario separarsi da chi se ne sta andando, sulla possibilità che possiamo e dobbiamo darci di affrontare eventuali problemi irrisolti che abbiamo con gli altri o con noi stessi. Ma com’è nata l’idea da cui ha preso vita questo romanzo e il suo protagonista, il commissario Sergio Striggio?
M.: La saga Chironi mi ha portato via circa undici anni. Avevo la voglia di ritornare al romanzo a chiave, al noir, al divertimento della trama, alla ricerca del colpevole. Tutto questo mi attirava moltissimo come idea e poi volevo anche fare proprio una vacanza dalla Sardegna. Infatti “Nel dirsi addio” l’ho ambientato a Bolzano, anche se qualcuno alla fine mi ha detto che sembrava comunque di essere in Sardegna, non ci si stacca mai! Sono molto affezionato a quel romanzo e presumo anzi che farò un’altra storia di Sergio Striggio, questa volta ambientata tutta a Bologna, dove lui torna per seppellire suo padre. Sarebbe la prima volta che ambiento un romanzo in questa città in cui vivo da anni.
5) L’ultimo tuo romanzo per Einaudi è “Pietro e Paolo”, un libro che parla di amicizia. Hai detto: “Prima o poi nella vita di uno scrittore arriva un libro apicale: qui ho rinchiuso una marea di ossessioni diluite che ho risolto diversamente nel tempo.”
Puoi raccontarci alcune di queste ossessioni dell’uomo Marcello e quali sono invece le ossessioni dello scrittore Marcello Fois?
M.: Le stiamo elencando senza accorgercene: per esempio l’ambientazione a Nuoro, in Sardegna, o la Prima guerra mondiale, che è una delle mie costanti, che mi sono sempre interessate molto. La condizione per cui un libro in qualche deve portarsi dietro sempre un po’ di altri libri. Dentro ogni libro ci deve essere una piccola biblioteca, secondo me. Perché così il lettore ha un valore aggiunto, per cui l’idea che Pietro e Paolo di cui uno ricco e l’altro povero è una storia di amicizia è un impianto classico, sotto certi aspetti. Ma è anche un po’ western come piace a me, un po’ noir perché va tutto a rovescio da sedici a zero. Quindi tu devi sapere cosa succede al punto zero, all’Ok Corrall. Queste sono le mie continue ossessioni narrative, l’idea che uno quando scrive debba dare corpo a un progetto narrativo che ha in testa.
Forse in questo modo si riesce a farlo sopravvivere nelle generazioni, anche se non è detto, perché la fregatura di chi ha in testa di diventare classico è che se ce la fa non saprà mai.
6) Quali sono i tuoi programmi futuri? Stai lavorando ad una nuova uscita e nel caso puoi anticiparci qualcosa?
M.: Appunto come dicevo prima un altro Striggio ambientato a Bologna. Poi vediamo, forse ritornerò alla televisione, ci sto pensando. Tempo fa ho abbandonato quel tipo di esperienza, è stato abbastanza problematico. Forse ora si sta concretizzando qualcosa di interessante, ci provo!
Intervista a cura di Federica Politi













