Intervista a Alan D. Altieri

4232
 
alan_d_altieri
 
 
Oggi grandissimo ospite nel mio blog, Alan D. Altieri! La sua biografia è talmente lunga, che sarebbe stato un problema riproporla qui. Non posso immaginare che ci sia qualcuno che ancora non lo abbia sentito nominare, ma per quelle “mosche bianche” che non lo conoscono, consiglio di sfogliare qualche motore di ricerca o direttamente Wikipedia.
1. Sergio Altieri, in arte Alan D. Altieri. Intanto come nasce il tuo pseudonimo e perché? 
A.D.: Anzitutto, Cecilia, un grande ringraziamento per ospitarmi sul tuo ottimo blog. 
Entrando subito in argomento, “Alan” nasce proprio dal mio primissimo libro — “Città Oscura”, Dall’Oglio, 1981. 
Trattandosi di un “thriller metropolitano” ambientato interamente a Los Angeles, con personaggi tutti americani, il mio editore, il grande Andrea Dall’Oglio, e io pensammo di giocare la carta dell’autore “ibrido”. Da qui l’entrata in scena di “Alan”… il quale è tuttora in circolazione. 

2. Quali romanzi ti piaceva leggere da ragazzino? E cosa ne pensi del rapporto, oggi, tra la lettura e i ragazzi? 
A.D.: Già alle scuole elementari cominciavo a divorare — manco a dirlo — il Giallo Mondadori e Urania. Da qui la mia passione per il thriller e la fantascienza. Inoltre, ero già una sorta di “piccolo maniaco” del cinema western, gangster e di guerra: la classiche strade della “dannazione a venire.” 
Francamente, non so quale sia, adesso, il rapporto tra i ragazzi e la lettura. Credo di vedere un “texting” dominante eseguito attraverso telefoni cellulari ultima generazione. C’è poi il peso dei social networks. Tutti “hi-tech toys” che nei… “tempi andati” ovviamente non esistevano. 
Tutto questo allontana i ragazzi dai libri? Forse in parte, anche se è difficile dirlo. La nuova frontiera è di certo lo e-book: negli Stati Uniti copre oltre il venti percento del mercato editoriale mentre in Italia la partenza è ancora in salita. 
In sostanza, anche per i ragazzi, vedremo dove porta il (cyber) fiume.

3. Ti sei laureato in ingegneria meccanica. Come mai sei poi approdato alla scrittura?
 
A.D: Cominciai a buttare giù i primi racconti brevi già all’epoca del liceo. Seguendo poi il Politecnico di Milano, utilizzai molto di quello che stavo imparando come elementi narrativi tecnologici nel mio primo libro “grosso”, che scrissi negli anni ’70. 
Si trattava di uno strano thriller “tecno-politico” per il quale ebbi addirittura un contratto con un valido editore, ma che alla fine non venne pubblicato. 
Passati quasi quarant’anni, direi che ora la narrazione è una parte inestricabile di me. 

4. Come hai cominciato? Traducendo o scrivendo? 
A.D.: La traduzione è arrivata molto dopo. Agli inizi della mia esperienza americana , lavorai per quattro anni (1983/1987) per il grandissimo e compianto produttore Dino De Laurentiis. Fu per lui che cominciai a tradurre sceneggiature cinematografiche dall’inglese in italiano. 
Si trattò di un eccezionale percorso di apprendimento. La sceneggiatura — sintetismo intrinseco ed essenzialità dei dialoghi — è una vera e propria palestra di stilemi e di “slang”. 
Oltre a entrare nello spirito della traduzione nel senso più lato possibile, lavorare sulle sceneggiature m’insegnò anche gli elementi fondanti della “story structure” (struttura della storia), che in seguito divennero elementi fondanti anche dei miei libri a venire. 

5. Andy McNab, David Robbins, Stewart Woods, Brian Herbert e Kevin J. Anderson, oltre a Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Questi sono i nomi degli scrittori che hai tradotto..ne ho tralasciato qualcuno? Con quali di questi hai avuto maggiore empatia nel tradurre i romanzi e quali le maggiori difficoltà?
A.D: In materia di autori contemporanei, vorrei citare il grandioso George R.R. Martin, del quale traduco ormai da anni la monumentale saga fantasy “A Song of Ice and Fire”, pubblicata da Mondadori sotto il titolo “Le cronache del ghiaccio e del fuoco”, un’opera diventata un vero e proprio cult mondiale grazie anche all’ottima serie televisiva prodotta da HBO. 
Inoltre, proprio questa primavera 2012, per Feltrinelli Universale Economica, ho interamente curato e tradotto “Il Dominatore delle Tenebre”, una raccolta dei racconti più significativi del leggendario profeta dello horror/soprannaturale Howard Phillips Lovecraft, HPL. 
Tra gli autori che citi, sia classici che contemporanei, i due “maestri immoratali” rimangono per me Raymond Chandler e H.P. Lovecraft. Chandler per all’eccezionale livello umano del suo protagonista Philip Marlowe, HPL in virtù delle prodigiose atmosfere gotiche che crea nelle sue storie. 
Sto parlando di due “maestri immortali” dai quali sono davvero molti i narratori che hanno tratto, e continuano a trarre, profonda ispirazione.

6. Raccontaci, se vuoi, un aneddoto di qualche tua traduzione. 
A.D: Uno dei libri che più mi hanno impressionato è “Aftermath” di Donovan Webster, pubblicato in Italia da Corbaccio con il titolo “Le Terre di Caino.” Si tratta di un agghiacciante, documentatissimo saggio storico su che cosa le guerre del XX Secolo si sono lasciate dietro. 
Nel tradurre il lungo, terribile capitolo relativo alla Battaglia di Verdun — la battaglia più sanguinosa della Prima Guerra Mondiale, tra le più sanguinose nella storia dell’umanità — sembrava davvero di sentire il sibilo dei proiettili e il l’odore strangolante del gas. 
Fu un’esperienza non solo linguistica ma soprattutto umana ed emotiva. 

7. Com’è la tua giornata tipo quando traduci? 
A.D: Sia nella scrittura che nella traduzione sono sistematico: non meno di sei ore al giorno, opportunamente pianificate. Una sistematicità che credo tragga prigine proprio dalla mia formazione tecnica. 
In particolare nella traduzione, valuto un numero fisso di pagine (del testo originale) da tradurre al giorno e cerco di seguire quello schema. Dobbiamo considerare che ogni lavoro ha una data di consegna stabilita per contratto che è giusto rispettare. 
Ovviamente, quando i tempi si comprimono, le notti bianche e i week-end d’assalto sono inevitabili. 

8. Si legge di libri scritti a quattro mani – o più – come gli amici Novelli&Zarini, ma esistono traduzioni a più mani? Ti è capitato? Se si, come ci si organizza? 
A.D: Anzitutto un plauso a Zarini & Novelli, grandi amici, come giustamente sottolinei, e autori di eccezionale inventiva e prolificità. 
Tornando alle traduzioni, la risposta è sì: esistono senz’altro traduzioni a quattro o anche a più mani. 
Nel mio caso speficio, sulla saga fantasy di George R.R. Martin, per il quarto e il quinto volume originale ho lavorato in tandemi. 
Per a “A Feast for Crows” (quarto volume), tradotto nel 2007, la mia partner era l’ottima traduttrice emiliana Michela Benuzzi. 
Per “A Dance with Dragons” (quinto volume) ho avuto l’onore — dico sul serio — di essere al fianco di Gaetano Staffilano, tra più grandi linguisti italiani e mio “mentore” per le traduzioni assieme alla grandiosa, compianta Laura Grimaldi e all’eccezionale Riccardo Valla. 
Lavorare con Gaetano — traduttore tra l’altro del fuoriclasse americano Dan Simmons — è stata un’esperienza unica sia umana che professionale. 
Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, Gaetano e io abbiamo diviso il testo in due metà, procedendo a tradurle indipendentemente ma continuando a dialogare e a compiere riferimenti incrociati. Ripeto: una magnifica esperienza che spero di poter replicare presto.
Il risultato sono i tre libri Omnibus Mondadori pubblicati tra la primavera 2011 e questo prossimo ottobre 2012. I titoli: “I Guerrieri del Ghiaccio”, “I Fuochi di Valyria”, “La Danza dei Draghi.” 

9. Cosa hanno in comune i protagonisti dei romanzi che hai tradotto, rispetto a quelli che hai creato nei tuoi libri? 
A.D: Epica ed esistenzialismo. Cerco sempre di dare un risvolto quanto più umano possibile ai miei personaggi, per quanto tutti abbiano dei “lividi sull’anima.” 
Come ti dicevo, l’opera di Raymond Chandler — in particolare il suo protagonista primario Philip Marlowe — ha avuto su di me un’influenza fondamentale nella descrizione di questo “cavaliere in armatura di flanella grigia” al tempo stesso cinico e malinconico, nichilista e sentimentale. 
Molte delle atmosfere gotico/apocalittiche che cerco di costruire nei miei libri sono peraltro fortemente influenzate da maestri quali Edgar Allan Poe e HPL, quest’ultimo che ho avuto il privilegio di tradurre. 
Quanto all’epica, George R.R. Martin rimane uno dei maestri indiscussi.

10. Da sempre affermo – e non solo io – che la letteratura americana riesce a sfondare rispetto a quella italiana. Sei d’accordo? Cosa manca ai nostri scrittori ? 
A.D: Non sono sicuro che la situazione sia davvero in termini così recisi. 
La letteratura americana è stata e, per certi versi, è tuttora, un asse portante della narrativa occidentale. I loro grandi autori hanno praticamente dominato tutto il XX Secolo. 
Credo però di vedere una certa “stanchezza” in alcuni dei narratori degli ultimi vent’anni. Ammesso e non concesso che sia così, l’autore americano ha comunque dalla sua il punto di forza della lingua. 
Tramontato il sia pure interessante esperimento dell’”Esperanto”, a tutti gli effetti la lingua inglese è e rimane LA seconda lingua planetaria. 
Da qui, oltre che da una tradizione narrativa di eccezionale solidità tematicha e tecnica, la penetrazione degli autori anglo-sassoni sulla scena editoriale intaliana e ben oltre. 

Ma si tratta della classica arma a doppio taglio: è impossibile non parlare di un vero e proprio “protezionismo linguistico” attuato dall’editoria anglo-sassone verso tutta la narrativa straniera.
Per essere pubblicato negli Stati Uniti, Inghilterra e Canada un libro estero deve essere un grosso best-seller nel paese di origine. Per l’Italia, il caso recente più eclatante è “Gomorra” di Roberto Saviano. 
Ciò premesso, in tutta franchezza, ritengo che ai nostri scrittori non manchi proprio nulla. Abbiamo almeno due generazioni autori in grado di “fare tutto.” Citando quelli che ritengo essere i nostri “mostri sacri”: 


Giuseppe Genna
è non solo un asso del “consipracy thriller”, ma un autore tout-court al più alto livello letterario
Valerio Evangelisti ha da un lato re-inventato il thriller esoterico con la saga di Eymerich, dall’altro ricreato un intero universo storico-gangsteristico con il suo capolavoro “Noi Saremo Tutto”; 
Raul Montanari rimane uno dei narratori più introspettivi attualmente sulla scena
Loriano Macchiavelli ha ridato nobiltà al poliziotto di strada con l’epopea di Sarti Antonio e ha riportato il prima linea l’eroismo e la tragedia della resistenza; 
Stefano Di Marino, forse l’autore più prolifico d’Italia, ha ridisegnato la mappa dell’avventura seriale con l’eccezionale saga de “Il Professionista”, riprendendo anche tutta una serie di tematiche puramente salgariane in molti altri testi della sua vastissima produzione; 
Claudia Salvatori, tra le massime autrici italiane contemporanee, spazia dal romanzo storico al thriller erotico all’horror puro; 
Danilo Arona è la punta di diamente del thriller soprannaturale; 
Franco Forte ha fatto dell’eclettismo narrativo al più ampio spettro il proprio punto di forza; 
Mauro Marcialis lavora simultaneamente sul thriller a intrigo e sul dramma esistenzialee; 
È una lista che potrebbe andare avanti molto, molto a lungo. Ribadisco, Cecilia: i nostri autori non hanno nulla da invidare ai colleghi americani. La barriera — editorialmente parlando — è la lingua.

11. Sono molto affascinata dal ruolo di sceneggiatore che hai avuto la fortuna di svolgere per Dino De Laurentiis. Quali sono le differenze tra lo scrivere una sceneggiatura per un film e una trama di un romanzo? 
A.D: In realtà, nessuna differenza. I criteri della narrazione rimangono gli stessi: tre ati, svolte tra un atto e l’altro, climax, conclusione. I parametri primari della “story structure” di cui parlavo prima. 
La sceneggiatura è un magnifico formato narrativo: secco, preciso, essenziale. 
L’elemento che però stacca la sceneggiaura dalla prosa è il non entrare nella testa dei personaggi, a meno di non usare artifizi (tipo voce fuori campo) che non sempre riescono. 
Il grande regista David Cronenberg, a sua volta sceneggiatore di prima grandezza, m’insegnò che “la voce fuori campo è solo un trucco per tentare di spiegare qualcosa che non si riesce a spiegare ccon le immagini.” 
A tutti gli effetti, lo sceneggiatore DEVE riuscire a trasmettere ciò che passa per la testa dei suoi personaggi solo attraverso i gesti e i dialoghi. 

12. Hai vissuto per molto tempo in America. Cosa ti ha lasciato l’esperienza oltreoceano? 
A.D.: La classica domanda da un milione di dollari. Tre cose fondamentali: 
l’immersione in una cultura e ina società radicalmente diverse dalla nostra; 
l’apprendimento della lingua inglese, la quale è a sua volta una diversa struttura di pensiero; 
un approccio diverso all’affrontamento delle problematiche umane e professionali. 
Dovessi dilungarmi su questi tre punti, ti servirebbe un intero server…

13. Hai tradotto, hai scritto, hai sceneggiato..Cosa ti manca? Suggerirei di darti al doppiaggio. Hai una voce che “spaccherebbe” sicuramente. O hai provato anche questo? 
A.D: Ti ringrazio molto del complimento sulla mia voce. No, non ho provato il doppiaggio ma, hey, why the hell not? 
Per contro, nessun dubbio: i doppiatori italiani sono i migliori doppiatori del mondo. Parlo dannatamente sul serio. Proprio non me la sento di tentare una invasione di campo. 
La cosa che però vorrei tentare è la scrittura per il teatro: sfida di prima grendezza considerati i cconfini dello “spazio scenico”. Vedremo. 

14. La Mondadori ti ha affidato la traduzione della saga fantasy “Le Cronache del ghiaccio e del fuoco”, la saga di George R.R. Martin. Quanto credi sia apprezzato il ruolo di traduttore? Se ne parla abbastanza, secondo te? 
A.D: Si parla dei traduttori, senz’altro. Se ne parla soprattutto nei blog specializzati. Quello che però credo di notare è che raramente si parla dei traduttori in termini lusinghieri. 
Il traduttore può certamente fare la differenza sostanziale, rendendo un romanzo migliore di quello che è nell’originale. Finendo però inevitabilmente a essere considerato il vituperato “traduttore traditore”. 
La traduzione è sia una sfida intellettuale che un campo minato. È un rischio che corriamo (noi traduttori, intendo) a ogni virgola.

15. Ti è mai capitato, da traduttore, di aver voglia di modificare un romanzo, soprattutto alla luce della tua esperienza di scrittore? Tipo cambiare un finale, che so… 
A.D: Credo invocherò il Quinto Emendamento… 
Battute discutibili a parte, quella tentazione non può essere negata. Al tempo stesso, DEVE essere respinta. Prima di qualsiasi altra cosa c’è il rispetto del testo originale. 
Il mio spassionato suggerimnto a chi desidera intraprendere la strada della traduzione: MAI affrontare un testo che si detesta. Si fà un triplo disservizio: all’autore, al testo e al traduttore.

16. Tradurre la trama di un romanzo equivale a leggerlo? Sembra forse una domanda banale..ma mi chiedevo se la concentrazione necessaria allo svolgimento del lavoro, distogliesse l’attenzione dal resto.. 
A.D: No, tradurre la trama di un romanzo NON equivale affatto a leggerlo. 
C’è un profondo abisso tra la sintesi di una story-line e lo svolgimento di quella stessa story-line. Un esempio: 
“In una terra percorsa da tensioni di potere sotterranee e palesi, si consuma lo scontro tra le forze del rinnovamento e dell’etica e le armate di un potere corrotto e malefico.” 
Una tipica reazione a quanto sopra potrebbe essere: “Ma andiamo, quante volte l’abbiamo sentita questa storiella?” 
Bene, la “storiella” in questione riassume con ragionevole accuratezza il conflitto alla base di “A Song of Ice and Fire”, di George R.R. Martin. 
Ecco perchè, in un libro, è sempre meglio superare la sintesi e leggere… il libro, appunto.

Grandissimo personaggio, sono stra-felice e onorata di averti ospitato nel mio blog e spero di incontrarti presto di persona!

A.Ti ringrazio ancora per lo spazio che mi dedichi, Cecilia. Un caro saluto a te e a tutti i lettori di questo tuo ottimo blog.