Intervista a Andrea di Gregorio

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Andrea Di Gregorio si è laureato in Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Dopo un master in pubblicità ha lavorato in diverse agenzie pubblicitarie internazionali, come la Ogilvy & Mather e la BDDP France. Ha tradotto il suo primo libro per la Guanda, nel 1989, e da allora fa anche il traduttore editoriale, traducendo dall’inglese e dal greco. E’ professore a contratto presso l’Università dell’Insubria dove tiene un corso su “Traduzione per il marketing”.
Ha tenuto corsi all’Università Ca’ Foscari, allo IULM, alla Scuola Superiore per Mediatori di Pisa, presso aziende e istituzioni statali italiane e svizzere. Molto tempo fa anche pubblicato due romanzi con l’editore Salani e tiene corsi di scrittura creativa e business writing.
Ha tradotto tutte le opere del giallista Petros Markaris, Bompiani, Lucy, di Jamaica Kincaid, Guanda e ora Adelphi Il dio visibile, di Alan Watts, Bompiani e ora Feltrinelli Un pollastro a Hollywood, di David H. Sterry, Adelphi Loxandra, di Maria Iordanidou, BUR Favole greche, a cura di A. Di Gregorio, Mondadori.
Storia della Grecia moderna, di Richard Clogg, Bompiani. E molto, molto altro…

1. Benvenuto, Andrea, come ti sei proposto alle case editrici per la traduzione? E come, invece, le stesse selezionano i traduttori migliori?
A.: Ciao e grazie di avermi invitato. Ho iniziato a lavorare per la Guanda un po’ per caso. Un mio compagno di Normale – Paolo Zaninoni, che ora è direttore editoriale della Garzanti – mi chiese se volevo fare qualche lavoretto, correzioni di bozze, letture eccetera. Eravamo alla fine degli anni Ottanta, io avevo cominciato a lavorare in pubblicità, ma mi sentivo un po’ un transfuga dalla cultura, quindi accettai volentieri. Dopo un paio di anni, mi propose una traduzione dall’inglese e di nuovo (forse un po’ azzardatamente) accettai. Erano le Storie e fiabe degli zingari, di Diane Tong che poi è uscito da Guanda. In seguito, mi è capitato di presentarmi a editori. Per esempio, delle Favole greche che sono uscite per gli Oscar Mondadori sono stato io a proporre il progetto editoriale, la scelta e la curatela e ne ho scritto la postfazione.
Per quel che riguarda la selezione dei traduttori editoriali, ora le cose stanno cambiando, ma sicuramente fino ai primi anni del nuovo millennio l’editore non cercava tanto un esperto linguista, un laureato in lingue per intenderci, ma uno che conoscesse la lingua-fonte e fosse, principalmente, una “persona di cultura”. Tanto è vero che, se si va a spulciare i curriculum dei traduttori editoriali storici, si trovano moltissime persone che vengono da formazioni assai diverse e relativamente pochi laureati in lingue. Pensa, per esempio, a Natalia Ginzburg o Giovanni Raboni, traduttori entrambi di Marcel Proust, e nessuno dei quali è laureato in lingue.

2. Come si “sopravvive” di sola traduzione editoriale? E parlami del tempo, principale nemico in questo tipo di lavoro. Come si riesce a ritagliare lo spazio necessario per non essere fagocitati dalle traduzioni?
A.: Il problema del traduttore editoriale è il tempo semplicemente perché la traduzione è pagata poco e quindi bisogna tradurre molto, e per molte ore al giorno per sbarcare il lunario. Detto questo, secondo me un traduttore esperto, che riesce a organizzarsi, a concentrarsi e a lavorare con costanza può farcela a guadagnare discretamente – a patto, ovviamente, che abbia un numero sufficiente di libri da tradurre.

Nella pratica, molti fanno anche altro. Io, per esempio, scrivo, insegno, mi occupo di marketing per alcune aziende. E tra i miei colleghi molti fanno anche traduzioni tecniche o legali. Insomma è la classica situazione in cui il pregio di avere la possibilità di organizzare il tuo lavoro come vuoi porta con sé il difetto di trovarsi con i tempi tirati e con qualche incertezza. Sempre meglio, però, che non avere lavoro!

3. Quanta fantasia si può impiegare in una traduzione? Ho letto un tuo articolo interessante che in cui descrivevi un passaggio della traduzione di un romanzo decidendo i tempi utilizzati al presente anziché al passato e la modifica di un titolo, rispetto a quello originario.
A.: I titoli sono quasi sempre frutto di una discussione redazionale. Spesso vengono cambiati rispetto a quelli originali, per ragioni di mercato che sono ragioni condivisibili. Pensa per esempio al classico caso del Giovane Holden che in originale è The Catcher in the Rye, titolo pressoché intraducibile in italiano, e specialmente negli anni Sessanta.

Per quel che mi riguarda, diversi romanzi di Markaris hanno un titolo diverso in italiano, o perché il titolo greco non sarebbe comprensibile (l’ultimo, in greco suona “Pane, istruzione, libertà” che era uno slogan dell’insurrezione del politecnico. Per i greci è immediatamente comprensibile, ma per un italiano sarebbe suonato strano, quasi come il titolo di un saggio. Quindi il titolo è diventato Resa dei conti), o perché potrebbe essere fuorviante (per esempio, un romanzo che, in greco si intitolava “Azionista di riferimento”, e poteva far pensare a un financial thriller, che non era, è stato tradotto La lunga estate calda del commissario Charitos).

Quanto alla fantasia da utilizzare in una traduzione, bisogna intendersi. Mi permetto di rimandare a un mio articolo dal titolo “Quanta creatività nella traduzione?” che trovate qui: http://www.bk.admin.ch/dokumentation/sprachen/04850/05007/index.html?lang=it

In sostanza, la creatività è fondamentale nella traduzione, ma non è da intendersi come “invenzione”, bensì come sforzo creativo per adeguare un testo a una lingua e a una mentalità diverse, evitando i cliché e cercando di trasfondere nel testo d’arrivo l’energia e la vitalità del testo-fonte.

4. Intervistando il tuo collega Daniele Petruccioli, ho scoperto che esistono penali in caso di non rispetto dei tempi di traduzione di un romanzo. Come si concretizzano? Una percentuale minore di guadagno? E, alla stessa stregua, le case editrici rispettano i tempi di pagamento?
A.: Effettivamente, le penali esistono, ma a quanto ne so vengono applicate molto raramente. Io ho lavorato quasi esclusivamente con editoria libraria, in cui i tempi sono abbastanza rilassati – anche per gli editori. In sostanza, però, la penale può concretizzarsi nel fatto che il traduttore deve pagare una parte della revisione, oppure c’è un “tot” a giorno di ritardo, un po’ come per le imprese edili. In ogni caso, se è prevista una penale deve essere assolutamente segnalata nel contratto, altrimenti non è applicabile.

Per quel che riguarda i ritardi nei pagamenti, purtroppo sono da segnalare ritardi anche gravi anche da parte di case editrici di grande rinomanza. Non so se sia possibile, però, dire qualcosa in generale, perché altri editori sono molto puntuali. Nel complesso, comunque, si può sempre telefonare, e poi ritelefonare, e telefonare ancora. Insomma, anche in questo caso bisogna fare quello che fa la maggior parte degli imprenditori e professionisti in Italia: tallonare il cliente.

5. Spiegami come funziona l’accordo con l’editore: ogni traduzione equivale a un contratto? O si stipula un accordo che prevede più traduzioni in un determinato periodo?
A.: Per quel che posso dire della mia esperienza personale, si stipula un contratto per ogni singolo libro. A me è capitato spesso che l’editore, mentre mi faceva firmare il contratto per una traduzione mi anticipava anche il sopraggiungere di un altro lavoro, ma – che io ricordi – non mi pare di aver mai firmato contratti “cumulativi”. Può essere però che altri abbiano esperienze diverse.

6. Hai tradotto tutte le opere di Markaris. Eppure mi pare non essere così frequente che un autore abbia lo stesso traduttore, anche se sarebbe auspicabile per mantenere lo stile della scrittura. Chi lo decide?
A.: In generale, ha ragione: è un bene quando c’è un solo traduttore che si occupa di un determinato scrittore. Non è del tutto vero, poi, che sia così raro che questo avvenga. A parte l’ormai paradigmatico e sempre citato caso di Yasmina Melaouah e Daniel Pennac, c’è Tullio Dobner con Stephen King, Francesco Durante con Raymond Carver, tanto per citarne alcuni.
Poi è chiaro che le cose possono cambiare: il traduttore si stanca, magari in un determinato momento non ha tempo, oppure (ahimè), avanza pretese economiche che, per quanto modeste, non vengono accolte. E questo, naturalmente, può far sì che venga sostituito da un collega.

7. Quali peculiarità e quali problematiche ci sono nel tradurre dal greco? Vi sono dei modi di dire particolari come in altre lingue?
A.: Ovviamente, anche il greco ha i suoi idiomatismi e le sue peculiarità. In buona sostanza si tratta di una lingua con strutture sintattiche abbastanza diverse dall’italiano: i verbi, per esempio, conservano un aspetto “modale”, ossia di azione continuata o momentanea che non di rado è più rilevante di quello temporale; ci sono i “casi” ossia le declinazioni (nominativo, accusativo, genitivo, vocativo) per sostantivi aggettivi articoli, e questo rende la sintassi più libera; è una lingua che ha un registro “parlato” molto immediato (più immediato dell’italiano, e questo, a volte, può creare dei problemi di resa), ma anche picchi di grande complessità, ricercatezza e artificiosità nel registro “alto”.

8. Hai scritto: “L’obiettivo per me è stato non solo quello di rendere il testo nella maniera più fedele possibile, ma anche fare delle scelte il più coerenti con lo stile dei volumi precedenti”. Come ti organizzi? Vai a rileggerti i romanzi per ricordarti lo stile utilizzato?
A.: Eh, sì, bisogna. Se nei romanzi precedenti c’era l’autopattuglia non è che, di colpo, il commissario può salire su una volante!

9. Che percezione ha il lettore di chi traduce un libro? Parliamo sempre della mancanza di sensibilità degli editori, ma i lettori si ricordano di voi? Ho provato a chiedere ad amici e conoscenti lettori, ma il bilancio è davvero sconfortante.
A.: In generale la percezione che, dietro un libro che viene da una lingua straniera ci sia un traduttore, ossia un professionista della lingua, è abbastanza scarsa. E lo dico anche pensando alla diffusione culturale. Basti pensare a Fahrenheit, per esempio, il programma di libri di Radio 3, oppure alle pagine culturali dei grandi giornali: sono infinitamente più le volte in cui il traduttore non viene neppure citato rispetto a quelle in cui se ne parla. Certo, se un amico sa che fai il traduttore si interessa e ti cerca, ma si tratta per lo più di un interesse personale (di cui sei grato, ovviamente), ma che non cambia la situazione di fondo.

10. Come riesci a conservare il carattere dell’autore che traduci? Lo conosci? Lo studi? Come fai a rendere la traduzione fedele al testo del romanzo?
A.: Diciamo che questo è il segreto professionale del buon traduttore. In realtà, Markaris lo conosco bene e siamo buoni amici, ma le cose non cambiano con altri scrittori che ho tradotto. Io cerco di capire qual è il registro dello scrittore, quali sono le parole che gli piacciono, e quindi anche le strutture sintattiche che ricorrono nella sua testi. Da lì mi posso fare un’idea del suo stile. Ovviamente, questo non significa necessariamente fare dei calchi, neanche di “flusso sintattico”. Sei comunque autorizzato a spezzare una frase di quindici righe o a fonderne quattro di cinque parole l’una in una di venti. Però devi farlo a ragione venduta, per un intento espressivo preciso e, tra l’altro, anche dopo esserti confrontato con il lettore – le sue aspettative – e fare calcolo di dare e avere con il lettore della lingua-fonte.

Alla fine, la fedeltà al testo si ottiene, secondo me, cercando di mettersi alternativamente nei panni del lettore dell’originale e del lettore della traduzione e cercando di ricostruire per il lettore della traduzione lo stesso “ambiente” (o almeno un ambiente molto simile) in cui vive il lettore dell’originale. Ma l’argomento è complesso, e richiederebbe molto più spazio. Spero che ne potremo riparlare in seguito.

11. Andrea Sirotti scrive: “In qualità di docente di traduzione, mi capita spesso di incontrare molti aspiranti traduttori ferratissimi da un punto di vista strettamente linguistico, ai quali manca a volte la necessaria curiosità e capacità di riflettere sulle ‛differenze’ culturali, prima che linguistiche.” Sei anche tu di questo avviso?
A.: Questo è sicuramente vero. Ed è la ragione per cui, per esempio, non è affatto sufficiente essere bilingui per essere buoni traduttori. Decidere, per esempio, come tradurre certe esclamazioni o imprecazioni, certi epiteti affettuosi o ingiuriosi va ben al di là della conoscenza linguistica ma rientra a pieno titolo in una “sapienza” antropologica, sociologica, storica, con tutta la complessità che il problema della resa adeguata, a questo punto, comporta.

12. Ti è capitato di sentirti in parte artefice del successo di un romanzo che avevi tradotto tu? D’altronde, presumo siano due aspetti inscindibili. Cosa ne pensi?
A.: Artefice, mi sembrerebbe un po’ troppo. Facilitatore, a volte sì. Di sicuro il lavoro editoriale del traduttore deve avere come obiettivo anche questo – concorrere al successo del romanzo. Cosa che, qualche volta, può anche voler dire mettersi in contrasto con l’autore. Ma anche su questo argomento, e sugli esempi che comporterebbe, ci sarebbe molto da dire, e quindi potremo ripararne.

Ci sarebbe anche un’altra domanda ma sono scaramantico e dato il numero, non risponderò!

Un ringraziamento a te e un saluto a tutti.

Grazie, Andrea. E’ stato un piacere!