Intervista a Seba Pezzani

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seba pezzani

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Oggi su Contorni di noir, Seba Pezzani, traduttore d’eccezione e con una biografia che fa impallidire!

1. Benvenuto Seba, vuoi raccontarci di te, il tuo background?
S.: Sono nato a Fidenza, il 21/07/64, e da più di vent’anni sono attivo come cantante e chitarrista, nonché autore. Mi sono laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna, e sono da sempre appassionato di letteratura anglo-americana. Affianco all’attività musicale quella di traduttore e interprete free-lance dall’inglese. Fra gli artisti al cui fianco ho operato, figurano Joe Lansdale, Jeffery Deaver, Anne Perry, John Landis, John Harvey, Ruth Rendell, Lawrence Block. Collaboro attivamente con la pagina culturale de l’Unità e ho collaborato per sei anni con quella de Il Giornale. Ho pubblicato il romanzo Tuttifrutti (Passigli Editori, 2004), scritto a quattro mani insieme all’amico giornalista Luca Crovi. Sono attivo sul fronte musicale con i RAB4, band di rock delle radici americane. Sono direttore artistico del festival musicale-letterario “Dal Mississippi al Po” di Piacenza.

Dalla fine del 2003 a qualche mese fa ho collaborato con Il Giornale, per conto del quale, oltre a scrivere articoli e a condurre interviste, ho curato quattro rassegne di racconti (tra cui, “I Racconti Noir Americani”, “Oltre il Muro” e “Le Voci dell’Anima”) e dal 2008 con l’Unità. Mi occupo soprattutto di letteratura anglo-americana e, occasionalmente, dei suoi rapporti con la musica. Sono direttore del bimestrale Terre Verdiane. Ho anche collaborato con il quotidiano “L’Informazione di Parma” e le riviste “Noir”, “Satisfiction”, “Buscadero”, “Film TV”, “Radiocorriere TV”, “Milano Nera”, “Mjuzik” ed “Experience”.

2. E ci sarebbe ancora da raccontare! Ma dopo una biografia così ricca e interessante, vuoi dirci com’è cominciato tutto? Cosa ti ha fatto scattare la voglia di dedicarti così attivamente in questo campo?
S.: La passione per la creatività e le varie forme di espressione mi appartiene da sempre. Ho iniziato a cantare in una valente corale religiosa a otto anni e ho smesso a quattordici (con molti rimpianti), ma poi la voglia di fare musica ha trovato una via nuova, attraverso la mia passione per il rock e, in un viaggio a ritroso di riscoperta delle sue radici, per la musica tradizionale americana. Nel frattempo, mi ero abbondantemente accostato ai libri, visto che mio padre era un grandissimo lettore, per cui un buon libro non mi è mai mancato ed è stata una vera fortuna.

3. In merito alla tua passione della letteratura anglo-americana, ci vuoi parlare di quale periodo e di quali autori?
S.: Non c’è un periodo che io preferisca. Ho sempre pensato – e lo penso tuttora – che l’Italia sia sia un po’ addormentata sui fasti del Rinascimento e che il romanzo, comunque, non sia mai stato il nostro forte. Abbiamo avuto grandi poeti, ma non grandi romanzieri. Salvo le dovute eccezioni. So che dicendo questo susciterò le ire di molti, ma credo che rispetto a paesi come Francia, Inghilterra e Stati Uniti davvero siamo in inferiorità. Ho letto grandi classici come Thomas Hardy, Jane Austen, Emily Bronte, Robert Louis Stevenson, Charles Dickens e poi, naturalmente, John Steinbeck e Harper Lee. Ma mi piacciono molti autori contemporanei, a torto o a ragione considerati scrittori di genere. Di certo me ne scorderò parecchi, ma vorrei citare Joe R. Lansdale, John Harvey, Thomas Franklin, Jeffery Deaver (le sue cose vecchie, però), Philip Kerr, David Liss. Anche cose diverse, come Ronald Everett Capps (quello di “Una canzone per Bobby Long”), il premio Pulitzer Larry McMurtry, Ian Ferguson (autore del delizioso “Un villaggio di piccole case”)…

4. Oltre al romanzo scritto a quattro mani con Luca Crovi, intitolato “Tuttifrutti” (Passigli Editori, 2004), hai scritto un pezzo intitolato Il tesoro degli altri sulla rivista culturale della comunità italiana d’Istria “La Battana”, uno intitolato God, Love and Murder sulla raccolta “Delitti e Canzoni” (Todaro, 2009), due racconti (“Gruppo Vacanze Scomparsi” e “La memoria fa acqua”) su Il Giornale e una postfazione al romanzo Cieco con la pistola di Chester Himes (BUR). Perché, a un certo punto, si ha voglia di scrivere un proprio romanzo?
S.: Io ne ho sempre avuto voglia, dal giorno in cui ho visto con i miei genitori il film Disney “Pomi d’ottone e manici di scopa”. Avevo sette anni, credo. Sono uscito dal cinema e ho scritto la mia prima storia, con tanto di disegni.

5. Come vi siete divisi i compiti, tu e Luca Crovi, per la stesura del romanzo? E com’è stato lavorare con lui?
S.: E’ stato un gran divertimento. Fin dalle intenzioni iniziali. Avevo buttato giù un paio di capitoli di quello che sarebbe dovuto essere quasi un romanzo di formazione, ma poi mi sono piantato. Ho telefonato a Luca e gli ho chiesto se gli andava di unirsi a me, visto che su mio suggerimento aveva da poco visitato alcuni dei luoghi in cui il romanzo è ambientato, in Olanda. Luca ha letto i due capitoletti e ha accettato, a condizione che il romanzo diventasse una sorta di thriller, che il tono si abbassasse (non che fosse particolarmente aulico…) e che non ci prendessimo mai sul serio. Così abbiamo iniziato a scrivere un capitolo a testa e a scambiarcelo. E qui viene il bello: io i miei capitoli glieli mandavo via email e lui invece via fax, così ogni volta dovevo ribattermeli… Ciò detto, come ripeto, è stato un gran divertimento e fino a metà romanzo abbiamo proceduto a istinto, poi ci siamo dati delle dritte.

6. Qual è stato, fra i grandissimi autori che hai tradotto, quello con la traduzione più ostica (so che Lansdale, scrittore che amo molto, usa un linguaggio slang non proprio facilissimo..) e quello più semplice? E perché?
S.: Mark Twain, senza dubbio alcuno. È uno scrittore straordinario che fa dello slang e dei doppi, tripli sensi il suo marchio di fabbrico. Una sfida molto difficile per qualsiasi traduttore. Tradurre Joe Lansdale, forse perché lo conosco intimamente e so come parla (e perché scrive proprio come parla) non è mai stato un problema.

7.: Qual è il modus operandi nella traduzione di un libro e come si riesce a trasmettere ai lettori lo stesso significato, la stessa essenza rispetto alla trama in lingua originale?
S.: Per prima cosa, a differenza di quasi tutti i traduttori, non leggo mai il libro che sto per tradurre. Il motivo è presto detto: voglio che non venga meno il piacere della scoperta e che l’esperienza del lavoro di traduzione si accompagni al gusto di una lettura quotidiana, lenta. Ma pur sempre una lettura. Dopodiché, procedo pagina dopo pagina, con una media quotidiana molto rigorosa, valutando in anticipo la possibilità di incontrare una giornata storta in cui la concentrazione stenta a esserci. Per il resto, io credo che il bravo traduttore sia quello che non si fa sentire. Detesto i traduttori “letterari”, quelli che pensano di essere autori mentre traducono. Non va dimenticato che il traduttore può solo contenere i danni. Chi la pensa diversamente è del tutto fuori strada. Mi capita troppo spesso di leggere in italiano testi che in inglese sarebbero splendidi e che nella nostra lingua non riesco nemmeno a finire, solo perché il traduttore si è sostituito all’autore. Il vero traduttore “letterario” è il traduttore “letterale”, quello cioè che non si prende libertà, che non elude certe difficoltà e sottigliezze linguistiche, e che rispetta fino in fondo l’autore.

8. Raccontami un aneddoto simpatico che ti è capitato durante una delle tue traduzioni.
S.: Su due piedi non me ne vengono in mente. Ricordo però che, alla fine del lavoro di traduzione di un bel romanzo di Michael Collins (scrittore irlandese trapiantato in USA), mandai all’autore un elenco di incertezze, compreso un refuso nel testo, un verbo in cui la mancanza di una lettera travisava completamente il senso della frase: l’autore mi fece i complimenti per aver colto un refuso a suo dire difficilissimo da interpretare.

9. Tra il mettersi a tavolino e tradurre un romanzo, rispetto alla traduzione simultanea durante le presentazioni, quale preferisci? Presumo sia molto più impegnativa la seconda…
S.: Preferisco di gran lunga fare il traduttore. Fare l’interprete non è più impegnativo che fare il traduttore. Sono due lavori completamente diversi. Semplicemente, preferisco di gran lunga tradurre.

10. Quanto pensi sia considerato e apprezzato il lavoro del traduttore?
S.: Penso che sia apprezzato. Comunque, più di una volta. Ma detesto sentire i traduttori lagnarsi del trattamento economico e dello scarso apprezzamento di cui godono. Fare il traduttore letterario è un privilegio e, come tale, ha un prezzo da pagare. Ma è ben poca cosa rispetto alla bellezza del lavoro. E comunque, ripeto, il traduttore buono è quello oscuro, quello che si tiene nell’angolo più buio della stanza…

11. Collaboravi regolarmente con la trasmissione “Tutti i colori del giallo”, condotta da Luca Crovi su Radio2 RAI (ancora mi chiedo il perché l’abbiano interrotta…). In che cosa consisteva esattamente la collaborazione?
S.: Purtroppo la trasmissione non esiste più. Ero semplicemente l’interprete quasi unico della trasmissione.

12. Direttore artistico del festival musicale-letterario “Dal Mississippi al Po” di Piacenza. Com’è nata l’idea di associare le tue due grandi passioni, musica e letteratura?
S.: È un’idea che ho sempre avuto, anche se a metterla in pratica è stato Davide Rossi, presidente della Cooperativa Fedro di Piacenza nonché con-direttore artistico del festival. Insieme abbiamo trovato una semplice simbiosi tra due forme espressive che vanno automaticamente d’accordo.

13. Un gioco che faccio su Contorni di noir: hai voglia di associare a un libro che hai tradotto un pezzo musicale?
S.: Se volessi risponderti con un altro giochino, direi “Waltz of Shadows” (Il valzer dell’orrore, titolo italiano semplicemente orrido, malgrado avessi supplicato l’editore di tradurre il titolo in maniera letterale, visto che si sarebbe trattato di un titolo splendido) di Joe Lansdale, perché la bellezza del titolo mi ha ispirato una canzone dallo stesso titolo. Volendo essere più serio, ti dico invece “Tom Joad” di Woody Guthrie, associato a “Furore” di John Steinbeck. Steinbeck fece il più bel complimento che un musicista possa ricevere, con queste parole: “Se avessi sentito la canzone ‘Tom Joad’ prima di scrivere ‘Furore’, non avrei avuto bisogno di scriverlo”.

14. Mi incuriosisce molto il tuo ruolo di musicista all’interno di una band rock dalle radici americane, i RAB4. Com’è nata l’idea di formare una band? Cantate in inglese?
S.: Io ho sempre e solo cantato in inglese, dopo i miei trascorsi di infanzia nella corale religiosa della mia cattedrale, corale con la quale cantavo quasi sempre in latino. Faccio parte di diverse band da quasi trent’anni e i RAB4 sono solo l’ultimo (per ora) tassello della mia esperienza di musicista. Nascono da un trio acustico e sono un tentativo di mettere a frutto tutte le lezioni apprese dalla musica e dalla cultura americana.

15. Riepilogando, esistono tre profili di Seba Pezzani: uno come musicista, uno come traduttore e uno come scrittore. Ne ho mancato qualcuno? Come convivono insieme? Ce n’è uno che prevale sugli altri?
S.: Il profilo, in realtà, è solo uno. Tutto ciò che faccio è una conseguenza della passione per la musica di derivazione americana che mi ha folgorato a 14 anni, mentre smettevo di cantare nel coro. In quel momento, dopo un innamoramento folle (mai sopito) per la musica dei Beatles, ho capito che c’era qualcosa in quelle voci, in quelle chitarre, in quel sound, che la musica italiana non sarebbe mai stata in grado di trasmettere. E così è iniziato il mio viaggio. Ho voluto imparare la lingua per poter cantare certe cose senza dare la sensazione di essere finto. Ho iniziato a leggere, a leggere tanto, in inglese e ad ascoltare centinaia, migliaia di dischi. La mia professione di traduttore è una conseguenza di lungo termine di una passione che non si spegnerà mai. Tutto il resto è un contorno. Non puoi realmente fare musica se non ti cali appieno nel contesto in cui certa musica è nata. Ecco perché tanto interesse per la cultura americana.

E qui finisce questa meravigliosa chiacchierata con Seba Pezzani, che a questo punto spero di rivedere alle prossime presentazioni o al prossimo Festival del blues!