Intervista a Gianluca Arrighi

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Oggi su Contorni di noir, intervistiamo Gianluca Arrighi, scrittore del romanzo Vincolo di sangue, in libreria dal 14 febbraio 2012 per Baldini&Castoldi.
1. Gianluca Arrighi, ti laurei in giurisprudenza nel 1997 e nel 2009 esordisci nella narrativa con “Crimina romana” per Gaffi Editore, che vende subito quattrocentomila copie e viene tradotto in francese, spagnolo, tedesco polacco e olandese. Com’è stato il passaggio dall’avvocatura alla scrittura?
G.: E’ avvenuto quasi per caso. Nel 2002 divenni amico di una giornalista della Rai che aveva seguito per il Tg3 alcuni processi dei quali mi ero occupato e che curava, sempre per la Rai, una rubrica settimanale di libri. All’epoca ero un giovane penalista, neppure trentenne, squattrinato e pieno di belle speranze. Ma ero anche sommerso da un’infinità di casi giudiziari, devo dire la maggior parte disperati, nei quali gli imputati erano spesso personaggi straordinari e rappresentativi della più varia umanità capitolina. Per questa ragione i “miei” processi erano molto seguiti dai media, soprattutto dalla cronaca di Roma. Fu proprio quella giornalista della Rai a spingermi affinché iniziassi a scrivere romanzi su fatti delittuosi, ispirandomi alla mia esperienza nelle aule di tribunale. L’idea mi piacque. Mi presentò un piccolo editore romano e così nacque “Crimina romana” che, al di là di ogni aspettativa, si rivelò un successo straordinario. Il volume, sbaragliando i colossi dell’editoria, rimase per diversi mesi nella top ten dei libri di genere più venduti.
2. Quali le principali differenze tra la stesura di un’arringa e quella di un romanzo? Ti prepari allo stesso modo?
G.: Sono attività estremamente diverse. L’arringa è una discussione orale che il difensore pronuncia al termine del dibattimento. In quel caso non scrivo nulla, studio gli atti del processo e poi lo discuto davanti al giudice. La stesura di un romanzo è un’altra cosa. Aspetto che la storia mi venga in mente, da sola, senza andarla a cercare. Il più delle volte, tuttavia, l’idea scaturisce da fatti giudiziari di cui mi sono occupato come avvocato. D’altra parte, per professione, sono costretto ogni giorno a relazionarmi con il crimine e in questo campo la realtà supera di gran lunga la più fervida fantasia.
3. E come si concilia un lavoro impegnativo come il tuo con la passione di scrivere?
G.: Tutto ciò che scrivo è intimamente ed inscindibilmente collegato al mio lavoro. E’ proprio questo che rende conciliabili le due cose. Come dico sempre, l’Arrighi scrittore non potrebbe esistere senza l’Arrighi avvocato e viceversa. Ormai, dopo oltre dieci anni di professione, nel mio studio ho assunto diverse valide collaboratrici che mi sgravano di molte incombenze. Certo, non posso dedicare alla scrittura tutto il tempo che essa meriterebbe, ma riesco spesso a ritagliarmi dei momenti nel corso della giornata. E poi, c’è sempre la notte…
4. Scrivi sul tuo sito: “Scrivere è un caos di sensazioni contrastanti: passione, odio, amore, rabbia, gioia, impegno, commozione, fermento.” Può essere anche un modo terapeutico di affrontare il crimine e descriverlo in un modo diverso da quello del professionista?
G.: Non è semplice vivere a stretto contatto con il crimine. Questo è anche il motivo per cui la maggior parte degli avvocati sceglie di occuparsi di processi civili, amministrativi o tributari. La passione per il diritto e la procedura penale talvolta non è sufficiente, specie quando ci si trova di fronte a delitti molto efferati. Non so dire se l’essere diventato un romanziere abbia avuto effetti terapeutici su di me, sicuramente mi consente di lavorare meglio e con maggiore serenità.
5. Quali sensazioni ti lascia un caso giudiziario vissuto nell’aula di un tribunale rispetto alle pagine di un libro?
G.: L’avvocato affronta il caso giudiziario sotto il profilo strettamente tecnico. Terminato un processo, deve subito affrontarne e prepararne un altro. C’è poco spazio riservato alle sensazioni e agli stati d’animo. Scrivere un libro è un’altra cosa: consente di soffermarsi, di emozionarsi e anche di commuoversi sulle vicende giudiziarie altrimenti vissute in modo freddo e distaccato.
6. E’ passato molto tempo dall’essere pubblicato dalle case editrici?
G.: Assolutamente no, ma sotto questo aspetto, devo dire, sono stato fortunato e privilegiato. Ogni giorno tuttavia, sui social network, tanti aspiranti scrittori mi scrivono chiedendo consigli e raccontandomi delle frustrazioni subite nel tentativo di trovare qualcuno disposto a pubblicare i loro scritti. Il mondo dell’editoria è complesso ed a volte prevalgono scopi prettamente commerciali a scapito del pregio letterario di un’opera. Questo, per alcuni versi, è tuttavia comprensibile. Non dimentichiamo mai che l’editore è un imprenditore e, come tale, è soggetto alle regole del mercato. Il consiglio che posso dare, però, è quello di diffidare sempre dagli editori che chiedono denaro per pubblicare.
7. Vuoi parlarci del tuo primo romanzo, “Crimina romana”? Ho letto che è stato adottato come libro di narrativa e di educazione alla legalità nei licei della Provincia di Roma. Com’è nata l’idea?
G.: “Crimina romana” piacque molto al presidente della Provincia di Roma che, insieme ad alcuni assessori, decise di adottarlo nei licei come testo di narrativa e di educazione alla legalità. Presentammo il libro nelle scuole superiori, dove io tenni alcune conferenze di cui conservo ancora un bellissimo ricordo. In ogni incontro le aule magne dei vari istituti erano colme di studenti tra i sedici e i diciotto anni, assetati di giustizia e pieni di domande alle quali cercavano risposte.
8. Dal 14 febbraio 2012, troviamo in libreria il tuo secondo romanzo, “Vincolo di sangue” di Baldini&Castoldi. Ci vuoi descrivere quale ragione ti ha spinto a scriverlo?
G.: Nell’estate del 1993 l’Italia venne sconvolta dall’omicidio di Maria Concetta Romano, una ragazza diciottenne uccisa dalla madre, Rosalia Quartararo, e poi gettata in un fiume. Secondo gli inquirenti il movente di quell’agghiacciante delitto fu passionale: Rosalia si sarebbe infatti innamorata del fidanzato della giovane figlia e, in preda a un furioso attacco di gelosia, avrebbe eliminato la “rivale” in amore con ferocia inaudita. Rosalia venne condannata all’ergastolo e inserita nei trattati di criminologia tra le assassine più spietate della storia, italiana e non. Tutta la stampa la additò come “mostro”, ma in realtà le cose andarono in modo molto diverso rispetto a quello raccontato per settimane da tv e giornali. La Quartararo, che io ho assistito nella fase esecutiva della condanna al carcere a vita, mi ha autorizzato a scrivere questo romanzo per gridare al mondo la sua verità, in gran parte differente rispetto a quella mediatica che ancora oggi tutti danno per pacificamente acquisita. Nessuna indulgenza per il crimine commesso da Rosalia, ma solo comprensione del fenomeno. Nel processo non venne mai accertata l’esistenza del movente passionale, nonostante ciò i media continuarono sempre a sostenere che fu la gelosia ad armare la mano di Rosalia. E solo quella è oggi la “verità” che tutti conoscono. Quindi, escluso il movente passionale, mi sono chiesto: cosa porta una madre, del tutto sana di mente, a commettere un gesto simile? In “Vincolo di sangue” ho tentato di dare una risposta, senza mai dimenticare che nel nostro ordinamento la pena deve sempre tendere alla rieducazione del condannato e come una madre assassina muoia anche lei, giorno dopo giorno, straziata dai sensi di colpa.
9. Mi ha colpito molto la trama del tuo libro, in cui una donna viene additata come “mostro”, al di là di ogni ragione che possa aver portato una madre a compiere un gesto così insano. Quanto pensi sia importante la collaborazione tra giustizia e media? Perché non vanno di pari passo?
G.: Quello che accade ogni giorno nei tribunali penali, la giustizia reale e quotidiana che si occupa di reati comuni è ancora, fortunatamente, svincolata dai media. Quando però ci si imbatte nei processi “mediatici” (che rappresentano, comunque, una percentuale irrisoria rispetto al carico giudiziario) tutto cambia. In questi casi, talvolta, magistrati, avvocati, imputati, persone offese e testimoni si trasformano in attori e questo ruolo “cozza” indubbiamente con quello loro attribuito dal codice di procedura penale. I media tendono sempre a spettacolarizzare le vicende giudiziarie, la giustizia dei tribunali è un’altra cosa.
10. E perché il giornalismo entra così prepotentemente nelle aule dei tribunali? Deve esserci un coinvolgimento da parte di spettatori, che rasenta la morbosità?
G.: Anche il migliore degli esseri umani ha dentro di sé una “parte oscura” e quindi percepiamo il male come un pezzo possibile della nostra vita. Cerchiamo di tenerlo lontano da noi, ma al tempo stesso ne subiamo il fascino perverso e seduttivo ogni volta che lo vediamo impossessarsi di un nostro simile. In qualche modo è come se, guardando il male, percepissimo una visione astratta di un qualcosa che, in modo latente, è presente nella nostra anima. Siamo nell’era mediatica, dove il crimine ha conquistato un ampio spazio su televisioni e giornali, che indulgono sempre più costantemente su scene di violenza e di sangue. La morbosa curiosità dell’opinione pubblica sui particolari più raccapriccianti dei delitti o per la vita privata e sentimentale degli assassini sono dei tipici esempi di catarsi: vediamo qualcun altro realizzare ciò che noi non faremmo mai, riuscendo così a scaricare la tensione prodotta da quelle parti di noi che potrebbero compiere qualche gesto malvagio.
11. Tu che vivi dall’interno i fatti di cronaca, credi siano frequenti i casi di questo tipo? Additare come colpevole una persona, ancora prima di vedere chiuso un processo? Ci sono molti innocenti in carcere che aspettano una…redenzione?
G.: In Italia le assoluzioni non piacciono. La maggior parte delle persone ritiene che solo le condanne siano sentenze “giuste”. Per il sentire collettivo, nelle vicende giudiziarie, se tuona da qualche parte piove sempre. Il che, in altri termini, equivale a dire: se qualcuno viene indagato o processato, qualcosa di illegale deve aver commesso per forza. Questa bassa e assai scarsa cultura giuridica diffusa nel nostro Paese ha portato diverse volte, in passato, persone innocenti a togliersi la vita. Relazionandomi ogni giorno con i pubblici ministeri, ho visto tante volte i magistrati inquirenti commettere errori ingiustificabili e prendere abbagli clamorosi. Gli italiani sono per la stragrande maggioranza dei “forcaioli”, ma, come dico sempre, le sentenze di assoluzione hanno lo stesso valore e la stessa dignità delle sentenze di condanna. Uno degli annosi problemi della giustizia italiana è quello relativo all’uso eccessivo della custodia cautelare in carcere. Sono migliaia i detenuti in attesa di giudizio che poi verranno assolti. Nel nostro ordinamento vige il principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza di condanna passata in giudicato. Per questa ragione la custodia preventiva rappresenta, o meglio dovrebbe rappresentare, l’extrema ratio, ossia la misura cautelare da applicarsi solamente quando ogni altra misura risulti inadeguata. Purtroppo, invece, il carcere preventivo viene utilizzato troppo spesso solo per fare pressione sulla persona in vinculis, per ottenere da lei informazioni o, magari, per indurla addirittura confessare un reato che in realtà non ha commesso. Dopo mesi, a volte anni, magari il processo dimostrerà che quella persona era invece innocente.
12. Come si fa a non restare coinvolti in un caso giudiziario? Come si raggiunge l’obiettività?
G.: Avvocati e magistrati sono tecnici del diritto e non devono mai farsi coinvolgere dalle vicende giudiziarie di cui si occupano. Il distacco è fondamentale per svolgere al meglio il proprio lavoro. Quanto all’obiettività, si raggiunge solamente con l’esperienza.
13. Delle carceri italiane se ne parla davvero in tutti i modi…vuoi dirci anche la tua opinione? Quanto vengono lasciati soli i detenuti, sia durante la reclusione, che dopo aver scontato la loro pena? Quali sistemi si potrebbero attuare, per attenuarne il disagio?
G.: Quando si entra in carcere si perde la speranza. Questo è il grande limite del sistema penitenziario, che svilisce il principio fondamentale della funzione rieducativa della pena così come cristallizzato nella nostra carta costituzionale. Il sistema carcerario è ormai un malato in fase terminale. Il sovraffollamento degli istituti di pena ha da tempo raggiunto livelli allarmanti e costringe i detenuti ad una vita disumana. Ultimamente il ministro della giustizia Paola Severino ha sottolineato come sia necessario un corretto equilibrio tra carattere umanitario del trattamento del condannato e tutela del diritto dei cittadini alla sicurezza. E in questa direzione vanno le iniziative del governo in materia di depenalizzazione, di introduzione della messa alla prova e di pene detentive non carcerarie. Ma questo non è sufficiente. E’ necessario con estrema urgenza incrementare l’edilizia penitenziaria e dare piena attuazione al piano carceri, che prevede la realizzazione di padiglioni detentivi in ampliamento delle strutture esistenti e la costruzione di nuovi istituti penitenziari.