Oggi ospitiamo nel salotto di Contorni di noir uno scrittore che abbiamo già avuto modo di intervistare qualche tempo fa: Massimiliano Santarossa (Pordenone, 1974) è uno scrittore italiano. Ha pubblicato Storie dal fondo nel 2007 e Gioventù d’asfalto nel 2009 per Biblioteca dell’immagine, nel 2010 Hai mai fatto parte della nostra gioventù? e nel 2011 Cosa succede in città per Baldini Castoldi Dalai editore, nel 2012 Viaggio nella notte e nel 2013 Il male per Hacca edizioni. Il suo ultimo romanzo, uscito nel 2015, è Metropoli per Baldini&Castoldi.
Se volete sapere di più sulla sua lunga biografia, consultate il suo sito http://www.massimilianosantarossa.com/
Benvenuto di nuovo su Contorni di noir, Massimiliano.
1. Hai scritto numerosi romanzi, com’è cambiato il tuo modo di scrivere?
M.: I primi romanzi portavano una voce di periferia, una voce diretta e realista, figlia dei protagonisti narrati, ragazze e ragazzi, donne e uomini, cresciuti ai margini dell’Italia popolare. I romanzi più recenti hanno preso invece una dimensione quasi postmoderna, a tratti anche monologante. Ho cercato di narrare ciò che le tensioni sociali producono nelle persone, intimamente, le ansie, le paure, le ossessioni che formano l’enorme mostro chiamato Occidente. Metropoli invece guarda oltre, al dopo. Tenta di rispondere a una domanda: come e cosa diventerà l’essere umano occidentale tra venti anni, nel 2035?
2. Il 18 marzo 2015 esce, per Baldini&Castoldi, “Metropoli”. Vuoi raccontarci come è nata l’idea? So che ci è voluto un lungo periodo (5 anni) per la realizzazione.
M.: Metropoli nasce dalla domanda precedente: cosa diventerà l’essere umano occidentale nel 2035? quando l’enorme crisi finanziaria che stiamo vivendo lascerà ovunque degli ammassi di macerie sociali. È un libro scritto, come direbbe Louis-Ferdinand Céline, “con l’intima speranza di essere smentiti”. Cinque anni mi sono serviti per portarlo a termine. È nato su quaderni scritti a mano, da appunti volanti; ha preso forma dopo anni di studi e porta delle digressioni legate all’economia, alla medicina, alla finanza, tutto rivisto in chiave narrativa. Ho impiegato molto tempo e molte prove per trovare la voce corretta al protagonista, che nel mio caso è una voce inedita, classicissima rispetto agli altri miei romanzi. Tutto questo ha richiesto qualche anno e diversi spazi vuoti, dove Metropoli stava lì, fermo a riposare, a respirare, a sentire prima di crescere nelle pagine. È un romanzo che continua ancora oggi a muoversi tra le righe.
3. Ho letto altri romanzi distopici (John Christopher, La morte dell’erba – Julianna Baggott, Memento) ma, se dovessi dare un sottotitolo al tuo romanzo, mi verrebbe da dire: “La fine di ogni cosa, la fine di ogni speranza”. Una società automatizzata e lobotomizzata che perpetua se stessa. Può esserci speranza in tutto questo?
M.: “Speranza” è una parola delicatissima da usare, è la parola più fragile coniata dall’essere umano, in quanto porta a una dimensione metafisica, distante dall’agire. In Metropoli il ragionamento si sviluppa attorno alla “speranza di trovare la Libertà”; libertà intima intendo, individuale, per cui quella fondante di ogni persona. Nel romanzo si muove una speranza fisica, corporea, che è la strenua resistenza a ogni totalitarismo, in onore della Libertà, propria, assoluta, sacra.
4. Un uomo che cerca scampo in Metropoli, lasciandosi alle spalle il nulla per trovare altro nulla. Un popolo che anziché evolversi, si è involuto. Una nuova società che si arricchisce nutrendosi (e non solo in senso letterale…) del lavoro degli internati, le figure all’interno del sistema. Si percepisce un senso di apatia in tutto il romanzo, di rassegnazione al proprio destino, cosa ne pensi?
M.: È un romanzo distopico, proiettato a narrare un futuro possibile e osceno, ma è anche un romanzo realista nel modo di vedere e rappresentare narrativamente la società. La venuta meno del fordismo, il crollo della finanza, l’inutilità del capitale, lo sfruttamento di ogni risorsa, a cosa portano? Metropoli è post-apocalittico nel senso più puro del termine, la fine del sistema produttivo, l’avvento di povertà devastanti che già si stanno propagando in Europa come mai da un secolo a questa parte, tutto ciò può solo portare a una resistenza corporea alle avversità: fame, freddo, malattie e quindi all’involuzione della società, al ritorno ad antichissime forme di sfruttamento auto imposto, un ritorno a ciò che abbiamo voluto dimenticare: la fatica. Metropoli racconta questo, un mondo che crolla nella povertà e la reazione naturale: il ritorno al sudore dei corpi, per costruire, per mangiare, per dormire, per scaldarsi, la fatica estrema per vivere. La schiavitù, in povertà, si accetta. Senza alcuna filosofia aggiunta. Metropoli indaga questa ipotesi.
5. Dell’uomo si conosce a malapena il nome – Marcus – perché all’interno di Metropoli sono tutti considerati dei numeri, forze lavoro per le varie catene di produzione del ferro, del legno, della plastica ecc. Una Metropoli dalle grandi fauci, come a ricordare il tuo precedente romanzo “Il male” nel quale descrivevi le fabbriche come bestie affamate che fagocitano qualsiasi cosa e la restituiscono trasformata, modificata. Cosa ne pensi?
M.: La società attuale è un riduttore di diversità, già adesso tutto tende a omologarsi al ribasso, le vite come il pensiero, le abitudini come il comportamento. Siamo già a ben vedere dei numeri, la finanza ci tratta come numeri, la politica ci tratta come numeri, nel lavoro siamo spesso dei numeri. Le basi di una società come Metropoli le abbiamo già messe, con la sovra-produzione industriale da cento anni, con il consumo forsennato di beni da cinquanta anni, con la televisione ieri, con i social network oggi. Manca solo un passaggio: il crollo della finanza e l’esplosione definitiva dei debiti degli stati e rischiamo di essere divorati del tutto. Poi saremo costretti a creare qualcosa di simile alla «città che è l’unico Dio: Metropoli».
6. Donne e uomini divisi, vietati i rapporti interpersonali, regole in cui non appare alcuna forma di bene, ma neanche di male. Tutto ha perso definizione: il terrore è diluito nel futuro imposto. Che abominio è questa salvezza? Ti chiedo: quale idea di futuro ha Massimiliano Santarossa? Credi si debba attraversare il buio totale per vedere nuova luce?
M.: Teologicamente ogni individuo è chiamato al proprio Viaggio ad infera. Sono ateo, ma a questa visione pre-cattolica e poi sviluppata nelle dottrine aquileiesi della Chiesa sono legato, qualcosa in essa mi attrae. Un viaggio dell’uomo in una Terra che è già inferno o purgatorio, dove è già contemplata la remissione dei peccati. E un arrivo alla salvezza pura, celestiale, ma per tutti, peccatori come vittime. In quanto il bene vince quando accoglie il male e non quando lo sconfigge. Insomma, da ateo, come direbbe Pasolini, “da ateo cristiano”, ho netta la sensazione di una Liberazione alla fine del cammino. Forse per alcuni anche durante il cammino terrestre, ma sono rari. Ho pertanto una visione assolutamente positiva del futuro. A modo mio.
7. La storia si ricicla, la storia si ripete, come un movimento perpetuo in cui l’uomo resiste a ogni cambiamento, come a ogni virus che si modifica e si trasforma. Ma chi vincerà? E, soprattutto, a che prezzo?
M.: Un autore che apprezzo molto, Michel Houellebecq, ne La possibilità di un’isola scriveva “Gli esseri umani hanno perso una grande opportunità: l’ebola, l’aids, le malattie; combattendole hanno scelto il suicidio per sovra-popolazione”. È drammatica l’affermazione di Houellebecq, ma ha un fondamento. Continuando così vincerà la Terra, continuando così l’essere umano consumerà definitivamente ogni risorsa, pertanto sta scegliendo l’estinzione. Vincerà quindi il pianeta, dove tutto tornerà al grado zero: piogge interminabili, vento glaciale, silenzio ovunque.
8. Dopo queste domande, vorrei sdrammatizzare l’intervista con il chiederti com’è il tuo rapporto con i lettori.
M.: Li rispetto totalmente e il mio rispetto passa attraverso la distanza. Non ho mai scritto una sola parola pensando ai lettori o peggio al “pubblico”. Faccio mie le parole di Pier Paolo Pasolini: «La poesia non è merce, non è consumabile. È ora di dirlo: questa di paragonare l’opera a un prodotto e i suoi destinatari a dei consumatori può essere una divertente, spiritosa metafora, ma nient’altro.»
La libertà di lettura, la libertà di scelta e anche la libertà di giudizio, nascono da opere che non rappresentano i gusti, un canone, una moda.
E così salutiamo Massimiliano, augurandogli che questo romanzo possa essere davvero una riflessione per molti..