Intervista a Charlotte Link

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(c) Cecilia Lavopa

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Intervistiamo oggi Charlotte Link, una delle più conosciute e apprezzate scrittrici contemporanee tedesche. Figlia d’arte – anche la madre è scrittrice – ha cominciato a scrivere da giovanissima e nel giro di pochi anni si è conquistata il titolo di regina del thriller europeo e scalato le classifiche dello Spiegel.
Solo qualche numero: 30 milioni di copie vendute nel mondo, 20 le lingue in cui vengono tradotti i suoi romanzi, un milione di lettori solo in Italia.

Esordisce nel nostro Paese nel 2002 con “La casa delle sorelle”, una storia familiare a cavallo tra passato e presente, che ha fatto breccia nei lettori e le ha fatto raggiungere i primi posti nelle classifiche dei libri più letti. Scrive la trilogia “Venti di tempesta”, approcciandosi al genere storico, a cui si era avvicinata da ragazza, per passare poi al thriller. Nel 2010, con il thriller Nobody, conquista anche il mercato americano.
L’abbiamo presentata il 30 gennaio 2017 in Mondadori di Piazza del Duomo – unica tappa della sua permanenza in Italia – e vi riportiamo parte dell’intervista che abbiamo realizzato. Buona lettura!

1. Sono onorata di avere la possibilità di intervistarla, Charlotte! Certo che per una scrittrice che ha dichiarato in una intervista la difficoltà di inserirsi nel mercato anglosassone, di per sé molto affollato, mi sembra che al contrario lei c’è entrata a gamba tesa! Da dove nasce la necessità di raccontare storie?
C.: Ho avuto difficoltà ad impormi nel mercato inglese e direi che è stato uno degli ultimi nei quali mi sono fatta conoscere. Gli inglesi hanno tantissimi autori del mio genere e quindi non hanno bisogno di acquistare questi libri che, tra l’altro, sono cari da tradurre.

2. Dei suoi esordi abbiamo accennato all’inizio… E’ stato difficile essere pubblicati? A cosa ha dovuto rinunciare e di che cosa si è arricchita?
C.: Scrivere mi ha fatto rinunciare a una serie di contatti durante le ore di lavoro e non è per niente facile lavorare mesi e mesi completamente da soli e tutto nella propria testa. Mi è mancato anche non avere colleghi con cui potersi confrontare. Al contrario, mi ha arricchita questo lavoro, fare di una passione un lavoro. E’ stato un regalo del destino poter fare questo mestiere tutti i giorni.

3. Ora è uscito “La scelta decisiva” pubblicato in Italia da Corbaccio. Com’è nata l’idea?
C.: Il punto di partenza della storia è stata la Francia del sud in cui ero stata nell’inverno di due anni fa. In un giorno di pioggia avevo fatto una passeggiata sulla spiaggia e all’improvviso ho pensato: “Cosa potrebbe succedere a due persone che non si conoscono, se si incontrassero e da questo incontro nascesse un disastro?”
Da qui anche il titolo di questo libro, una decisione che deve essere presa nella frazione di un secondo, una scelta che potrebbe cambiare l’intera esistenza di una persona. E’ stato questo il pensiero iniziale e non tanto la storia criminale che si lega a questo.

4. Mi colpisce la scelta della caratterizzazione psicologica dei personaggi, che considero il leit motiv delle sue opere. Simon, protagonista a sua insaputa, ha un carattere remissivo, tutti si permettevano di prendersi delle libertà con lui: suo padre, la sua ex moglie, i suoi figli. Trovava sempre ragioni per sottomettersi alle aspettative, alle pretese o alle volontà degli altri. Ma quando si finisce di essere un brav’uomo e diventare il burattino di tutti? Ci parli di lui.
C.: Anch’io adoro questo personaggio, lo trovo interessante, ha un bisogno estremo di armonia e dipende totalmente dal giudizio altrui. Sente la necessità di essere amato dagli altri, d’altra parte però è anche sfruttato. Un giorno incorre in un momento terribile e devastante, che però lo porterà a conoscersi profondamente e a tentare di cambiare. E’ anche il personaggio che all’interno dell’intera vicenda cambia di più ed è questo che lo rende interessante ai miei occhi.

5. Altro personaggio che mi ha incuriosita è Nathalie, una storia familiare difficile, un modo di approcciare a un argomento delicato: l’anoressia. “Una magrezza scheletrica in mezzo a una società del benessere. Sempre più invisibile.” Ce la può descrivere?
C.: Nathalie è una giovane traumatizzata dalla vita, il trauma peggiore è stato l’abbandono del padre quando aveva sei anni, andato via dall’oggi al domani senza dire nulla. La madre soffre di alcolismo e tutto il peso del quotidiano ricade sulle spalle di Nathalie, la quale dà segni chiari e evidenti della difficoltà di portare addosso questo peso. In un certo senso cerca di sciogliersi, di non esistere più e sprofonda in un mare di difficoltà. Ma è un personaggio che non si spezza, al contrario riesce a tornare alla vita normale.

6. Durante la lettura, si fa riferimento più volte agli attentati terroristici in Francia, sia quelli del 13 novembre 2015, che di quello avvenuto alla rivista satirica Charlie Hebdo. La sanguinosa sparatoria al Bataclan è stata definita come la più cruenta aggressione in territorio francese dalla seconda guerra mondiale. Riportarli sulla carta, sul suo romanzo, è un modo per esorcizzarli? Ricordiamo poi quello più recente a Berlino, tra l’altro…
C.: Ho una seconda casa nel sud della Francia e passo molto tempo in questo luogo. Tutte e tre le volte che ci sono stati gli attentati mi trovavo lì e ogni volta ho notato come l’atmosfera fosse pesantemente cambiata. Il sud della Francia è un luogo di leggerezza, di sole, di vita bella e allegra e all’improvviso regnavano la paura, la polizia, i militari dappertutto. Per caso, questo accadeva mentre mi accingevo a scrivere questo romanzo. Non era possibile parlare della Francia senza fare riferimento a quelle tragedie, perché altrimenti non sarebbe risultato autentico.

7. Nonostante il suo romanzo sia un thriller, trovo che il plot non sia tradizionale. Non viene lasciato molto spazio alle indagini della polizia, ma piuttosto alla storie che vi ruotano intorno. Parliamo di Ines Rosarde, per esempio. Commissario della polizia criminale di Tolone, non eccelle in fatto di professionalità. Ce ne può parlare?
C.: Ines è un commissario di polizia che ha commesso gravi errori e ha dovuto cambiare una parte della sua squadra. Ora ci prova a fare tutto per bene, avendo alle spalle un passato scomodo, ma il rischio è di scoprire la verità troppo tardi.

8. In un suo romanzo precedente, “Oltre le apparenze”, descriveva una trama in cui le donne non possono ancora sentirsi tranquille. Anche ne “L’inganno” parla della normalità di una vita che spesso non è altro che una facciata che nasconde realtà oscure e inquietanti. Sembra quasi un messaggio anche in questo romanzo, dove le donne ancora una volta devono difendersi da una società ancora troppo improntata alla diseguaglianza. Cosa ne pensa?
C.: Non direi che le donne si sentano particolarmente insicure e abbiano bisogno di sicurezze più degli uomini. Viviamo tutti in un tempo di grande incertezza e insicurezza. Tutti tentano di fare del loro meglio in un modo o nell’altro. Non volevo che ci fosse un messaggio rivolto soprattutto alle donne, vale anche per gli uomini. Nel mio romanzo, tra l’altro, tante vittime sono proprio uomini.

9. Ha avuto la capacità di collegare tutti i personaggi senza lasciarli a meri ritratti o peggio, schizzi, ma farli diventare tutti protagonisti legando con estrema bravura e abilità tutti i fili che compongono questo romanzo. Com’è riuscita a mantenere l’equilibrio della trama?
C.: Naturalmente prima di cominciare a scrivere un libro ho un piano a cui attenermi, anche se non è preciso, perché i personaggi cominciano a sviluppare una propria indipendenza e alla fine sono loro a decidere le proprie sorti più di me. E’ vero però che ci sono tante storie e tanti personaggi ma io lavoro per mesi a questo romanzo e cerco di mantenere sempre una visione di insieme. In fin dei conti, non posso obbligare nessun personaggio a entrare nella trama se non lo vuole.

10. In una precedente intervista raccontava che molti lettori si identificano con i suoi personaggi: stessi sentimenti, paure, preoccupazioni. E’ questo uno dei motivi che la contraddistinguono dagli altri autori? Parlare di persone “normali”?
C.: Si, penso che sia per questo, almeno a giudicare dai riscontri dei miei lettori. Molti mi scrivono dicendo che si riconoscono nel personaggio o nella vita di questo. Io scrivo di persone assolutamente normali e della sfortuna di essere nel luogo sbagliato o nel momento sbagliato. Possono essere vittime in quel momento o semplici osservatori. Parlo di persone normali che potrebbero agire e comportarsi esattamente come noi.

11. Qual è stato il libro più difficile da concludere e quello più facile?
C.: Direi che quest’ultimo è stato difficile, in quanto estremamente stratificato e compaiono molti fili che si incontrano – ma tardi – nella storia. Mentre “L’ultima traccia” è un romanzo che quasi si è scritto da solo, un flusso ininterrotto e non saprei spiegare il perché. A volte ci si trova in una fase creativa molto favorevole e tutto risulta più facile. Altre volte la scrittura diventa molto più complicata se non si è nella fase migliore per scrivere.

12. Dal libro “Alla fine del silenzio” in Germania è stato tratto un film che in Italia non è arrivato. E’ stato complicato lavorare con il regista e tradurre il libro in un film oppure no?
C.: Da tutti i miei romanzi sono stati tratti dei film, non solo quello da lei citato. Effettivamente è molto complicato, non solo lavorare con il regista ma anche la produzione della sceneggiatura e anche al fianco delle emittenti televisive. Perché tu ti immagini le scene di un film – credo in Italia sia la stessa cosa – ma l’importante è raggiungere il pubblico il più ampio possibile. E’ un processo doloroso per un autore che alla fine non riconosce più la propria storia, rimane solo il titolo.

13. Che rapporto emotivo ha con i suoi personaggi? Le è mai capitato di salvarne o condannarne qualcuno, anche se non era giusto all’interno della trama ma per il rapporto che aveva con loro?
C.: In verità, se è giusto che all’interno della trama un personaggio diventi vittima in determinate situazioni anche se non era previsto, ma all’improvviso sviluppa una struttura caratteriale che lo porta in quella direzione, ecco che lo faccio diventare una vittima. Al contrario, può anche accadere che io mi immaginassi inizialmente che un determinato personaggio fosse un killer, ma poi non riesce a sviluppare sufficiente energia criminale per giustificare l’idea. Io non sviluppo una relazione emotiva con i miei personaggi, tendo piuttosto a mantenere le distanze per avere sempre una visione di insieme e riuscire a capire come possono muoversi al meglio. Non mi sento mai di confermare a tutti i costi le mie idee iniziali.