Intervista a Federico Inverni

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Oggi ospitiamo nuovamente su Contorni di noir Federico Inverni, autore del thriller “Il prigioniero della notte”,  romanzo d’esordio pubblicato da Corbaccio nel 2016 con protagonisti la profiler Anna Wayne e il detective Lucas. Esce ora il secondo intitolato “Il respiro del fuoco” e, se volete saperne di più, potete leggere l’estratto del romanzo uscito in anteprima sul nostro blog in occasione del blogtour.
Abbiamo intervistato l’autore, ecco cosa ci ha raccontato:

1. Bentornato sul nostro blog, Federico. Racconta qualcosa di te ai nostri lettori, senza far trapelare nulla sulla tua identità, ovviamente.
F.: Questo è sempre il compito più difficile! Cosa dire? Ho una vita indaffarata e felice (forse le due cose sono collegate), lavoro molto con la mente e mi svago facendo attività che non richiedano di pensare (forse le due cose sono collegate), leggo moltissimo e – quando riesco – scrivo (forse le due cose sono collegate)…

2. Ti abbiamo incontrato l’anno scorso con il tuo romanzo d’esordio e ora è uscito “Il respiro del fuoco”. Qual è stata l’idea che lo ha fatto nascere?
F.: È stata una cosa strana. Mi continuava a tornare in mente un’immagine che non avevo mai visto nella realtà. Un cerchio di persone, sdraiate a terra, le teste vicine a comporre una specie di sole bianco – perché nella scena tutto era bianco. Ma c’era qualcosa che non tornava in quella strana composizione di corpi… E quando ho capito che cosa non andasse, ho cominciato a scrivere. Più in generale, però, mi interessava capire fino a che punto la nostra mente fosse fragile, suggestionabile, perfino manipolabile. Succede anche in natura: c’è una specie di funghi parassiti, si chiama Ophiocordyceps unilateralis, che infetta insetti artropodi, come le formiche, e in alcuni casi riesce a ‘convincere’ il corpo ospite a salire su una pianta prima di arrendersi alla morte. È così che il parassita si garantisce le migliori condizioni ambientali possibili per la propria riproduzione.
Ecco, certe idee, certe suggestioni (che spesso fanno leva sulle nostre paure più recondite) ci spingono, quasi senza che ce ne accorgiamo, a comportamenti che riescono a sopraffare qualsiasi istinto di sopravvivenza.

3. Ritroviamo Anna Wayne, poliziotta e profiler e Lucas, collaboratore della polizia. Ce li vuoi descrivere?
F.: Anna è una profiler. Non lo fa soltanto di lavoro: lo è. Tanto che perfino quando conosce una persona nuova il suo primo istinto è incasellarla in una griglia psicologica, profilandola in base a una e una sola caratteristica: la probabilità che quella persona ha di fare, e di farle, del male. E questo perché Anna è una donna segnata, che fatica a «profilare» se stessa, a capire di cosa ha bisogno e come guarire dalle proprie paure. Ma io la adoro perché a tutto questo reagisce con una rabbia che in qualche modo ricorda il fuoco.

Lucas è… Lucas è un enigma perfino per se stesso. Chi farà la sua conoscenza con questo romanzo, Il respiro del fuoco, spero abbia poi la curiosità di scoprire da dove viene leggendo anche Il prigioniero della notte, anche se i due romanzi sono leggibili in modo perfettamente indipendente. Lucas è un poliziotto, e forse la sua capacità deduttiva e lo sguardo clinico, freddo, con cui esamina ogni scena del crimine sono tutto ciò che gli rimane. Ma sta cambiando, sta recuperando a poco a poco parti di sé… Resta da vedere se questo è un bene, per lui, per Anna…

4. Prima di tutti gli altri, protagonista di questo romanzo è il fuoco. Quanto può parlare il fuoco? E quanto può essere manipolato?
F.: In senso concreto, il crepitio di un incendio credo sia fra le cose più terrificanti al mondo. Mi è capitato di assistere a un incendio (che poi si è scoperto essere doloso, per fortuna senza vittime), ed è stato angosciante… Eppure stranamente magnetico. Impossibile non sentire delle voci quasi aliene, nel rumore di quelle fiamme. Esistono molti modi per manipolare il fuoco, ma tutti hanno una componente di rischio che fa parte della natura indomita e indomabile delle fiamme.
Di tutto ciò, mi interessa però anche l’aspetto metaforico. Penso a un’idea come a una scintilla, e a un coro di menti sedotte da quell’idea come a un incendio…

5. Racconti di una setta – capeggiata dal reverendo Tobias Manne – come purtroppo ce ne sono tante nel mondo. Luoghi nei quali fragili menti si uniscono sotto un leader carismatico, che li denuda di tutti i loro risparmi non certo per elevarsi a livello metafisico, ma solo per i propri interessi. Come ti sei documentato?
F.: Hai ragione, sono tante, nel mondo e nella storia, anche odierna. Ho studiato i casi più recenti, e agghiaccianti, di sette o culti con a capo personaggi carismatici. Spesso in cerca di danaro o, più semplicemente ma anche più inquietantemente, di potere. Il potere di manipolare le menti altrui li inebriava. Uno dei documenti più incredibili, reperibile in rete, è il famigerato ultimo nastro del Tempio del popolo, la setta del reverendo Jim Jones, prima del colossale suicidio collettivo del novembre del 1978.
È una lunga registrazione audio in cui si sente il reverendo discutere con i suoi adepti e cercare di convincerli che l’unica strada che rimane è darsi la morte tutti insieme. Un altro caso fra i più strani che ho trovato è quello della setta fondata da Marshall Applewhite, Heaven’s Gate: anche la loro storia si è conclusa con un rito suicida. E l’immagine degli occhi stralunati di Applewhite mi ha accompagnato a ogni pagina in cui parlavo di Tobias Manne.

6. Troviamo Lucas in questo romanzo diverso, più umano, un aspetto quasi del tutto sconosciuto, inesplorato. Un’emozione simile a un istinto di protezione. Cosa è cambiato?F.: Lucas ha un passato turbolento e traumatico, in senso letterale. Ma la sua condizione apparentemente irreversibile non è tale: si sottopone a un trattamento che potrebbe guarirlo, reintegrare la sua umanità. Ma è davvero cosa buona e giusta? Questa è l’evoluzione del personaggio che mi interessava indagare. Se, nel Prigioniero della notte, Lucas era un essere imperfetto ma efficiente, nel senso più asettico e clinico del termine, nel Respiro del fuoco volevo vedere cosa gli sarebbe successo se avesse iniziato a recuperare la propria integrità psichica… comprensiva di tutte le emozioni. Ma alle emozioni Lucas non è più abituato… Immagina una terra che non abbia conosciuto altro che il deserto per anni e anni, e poi immagina che d’un tratto non arrivi la pioggia, goccia a goccia, ma un uragano, tutto insieme e subito: cosa resterà di quella terra?

7. Anche Anna è diversa, più consapevole, anche lei con il suo bagaglio di traumi personali. Si fida ciecamente di Lucas ed entrambi condividono segreti. Un giorno li avrebbero divisi o resi ancora più indissolubili?
F.: Il loro è un rapporto in divenire. Tanto Lucas è apparentemente freddo, quanto Anna è facile all’incendio. Questo li divide, ma allo stesso tempo non può che avvicinarli. Ma è una prossimità rischiosa, naturalmente. Cosa succede a chi si avvicina troppo al fuoco? Soprattutto se è erroneamente convinto di conoscerlo e di poterlo dominare? Parafrasando Freud, il loro rapporto è una casa in cui nessuno dei due è padrone. Ma è senz’altro una casa.

8. Mi ha colpito un passaggio del libro che dice: “L’amore deve essere puro come acqua di fonte, altrimenti non è amore ma veleno. Il tuo amore deve essere saldo e forte e incrollabile e deve essere non per te stesso come sei adesso ma per quello che sarai seguendo le mie parole.” Sembra quasi di leggere “Così parlò Zaratustra” di Nietsche… Cosa mi puoi dire in proposito?
Nietzsche è un’antica passione, un ricordo dei miei studi. Forse per via della follia dei suoi ultimi anni, mi è sempre parsa una figura che incarna l’essenza tragica del genio. Ma è a lui che si deve una frase che, a mio parere, può essere trasposta a definire la natura profonda del thriller moderno: «Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro.» Nei thriller, e nei romanzi in generale, che amo di più, Bene e Male non sono netti e inconfondibili, no. Sono fluidi, si sfiorano, si inquinano l’uno dell’altro – pur rimanendo profondamente distinti.

9. Hai portato avanti la scelta narrativa di far parlare in prima persona Anna e tutti gli altri in terza persona. Ha giovato alla trama, secondo te?
F.: Non saprei dire, è una valutazione che lascio volentieri a chi mi leggerà, io naturalmente spero di sì! La ragione di questo doppio registro è semplice, in realtà: mentre la voce di Anna mi è più chiara, dentro, più udibile, e quindi è facile scriverla in prima persona, Lucas è ancora sfuggente, sia per me sia, di conseguenza, per il lettore. Lui stesso, da un certo punto di vista, si vive ‘in terza persona’, dall’esterno.
Ma mi sforzo di essere molto rigoroso in questo: a ben vedere, le parti di Lucas sono una ‘falsa’ terza persona, ovvero una sorta di prima persona di Lucas, ma traslata. E infatti non viene mai raccontato nulla che non gli succeda davanti agli occhi o a portata d’orecchio. Quando scrivo le sue parti, immagino di essere una telecamera fissata alla sua fronte e di registrare tutto ciò che lui vede e sente.

10. Il fattore “pseudonimo” non solo ricorre nel tuo nome, ma anche nel romanzo. Come a dire: “Mai rivelarsi per quello che si è?”
F.: E se uno dei piaceri maggiori della vita fosse… lasciarsi scoprire? Al di là della battuta, in fondo un thriller non esisterebbe senza mascheramenti, slittamenti d’identità, menzogne indossate come abiti su misura, cucite addosso con tanta perfezione da confondersi con la propria pelle… In qualche modo, rivelarsi per quello che si è fa paura: perché, prima, dovremmo rivelarlo a noi stessi.

11. Si può leggere il tuo romanzo fino alla fine e non rimanerne…scottati?
F.: Se rimanere scottati vuol dire che il romanzo è piaciuto, allora… Ci metto la firma! 🙂

Intervista a cura di Cecilia Lavopa