Intervista a Romano De Marco

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Romano De Marco

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Romano De Marco sperimenta il thriller classico e “L’uomo di casa”, appena uscito per Piemme  è il primo romanzo di questo genere che scrive, dopo essersi cimentato nei generi polizieschi e noir ambientati tutti in Italia. Ha pubblicato con Feltrinelli la Serie Nero a Milano, una serialità diversa e slegata e ogni romanzo leggibile singolarmente.
Ha voluto dare un cambio radicale e concentrarsi sulla storia, ambientata in America, in luoghi che conosce bene. Una zona ricca nei dintorni di Washington molto snob che risente economicamente – e non solo – della vicinanza della sede del Pentagono, della CIA, FBI. Case bellissime e immerse nei boschi, tanta opulenza e vita idilliaca, ma si celano anche molti incubi in questi posti da favola.
Lo abbiamo incontrato per farci raccontare qualcosa su di lui e sul romanzo:

1. La persona con cui condividi la quotidianità non è assolutamente quella persona che credevi. Al giorno d’oggi sono sempre meno le cose che non sappiamo delle persone, tra social e comunicazioni varie. Forse il fatto di scoprire che tutto ciò che credevamo perfetto e scintillante e in realtà è tutt’altro, è rimasta l’unica grande paura che abbiamo ancora più della paura del mostro?
R.: Hai colto nel segno, io volevo sondare la paura dell’ignoto anziché del mostro, del serial killer. Penso abbiate visto un bellissimo film italiano, Perfetti sconosciuti. Una frase che veniva citata: “Ognuno di noi ha tre vite, una pubblica, una privata e una segreta.” Ed è così.

I social più che condividere, aiutano a nascondere. Io non volevo raccontare questo segreto dal punto di vista dei social. Sandra le scopre sul campo, muovendosi da sola. Ancor più del dolore per la perdita del marito, la sofferenza di Sandra è proprio la paura di non riuscire a scoprire la verità sulla persona che gli viveva accanto.

2. Tu nasci con il poliziesco, noir e con questo romanzo hai fatto un cambio di rotta radicale. Quali differenze hai notato e quali difficoltà hai avuto nella scrittura del genere thriller come in questo caso.
R.: D’accordo con Massimo Carlotto, il noir è una narrativa di contenuti più che di genere. Racconti la realtà italiana, la società, di te stesso. Con i miei romanzi del ciclo di Milano, parlavo molto di me, delle carceri in Italia, della separazione e del divorzio. Vi è una sorta di contaminazione tra autore e opera. Qui mi sono messo al servizio della storia, non c’è niente di me. Ho creato discontinuità sia nell’ambientazione che nel personaggio.

Spesso inserisco le donne nei miei personaggi – vedasi Laura Damiani – e ho cercato di concentrarmi su di loro. Difficile entrare nella psicologia femminile – dalla notte dei tempi – e ho dovuto fare un lavoro impegnativo e affidarmi a un gruppo di lettura composto da quindici donne – presiedute da una femminista attivista, Samanta Picciaiola – vicino a Bologna con cui ho messo in contatto la mia amica scrittrice Marilù Oliva e ho chiesto a loro di leggerlo. Mi hanno fornito molte indicazioni giuste e che mi hanno fatto correggere la mira. Vi dico solo che ho fatto morire il marito di Sandra in modo diverso da come avevo progettato. Non sono geloso di quello che scrivo e faccio un lavoro di editing per conto mio, con l’aiuto di Chiara Beretta Mazzotta. Mesi di lavoro nei quali il punto di vista narrativo e stilistico continua ad evolversi e a modificarsi. E questo mi serve per presentare alle case editrici un lavoro “pulito”.

3. In questa storia quasi nessuno dei personaggi è realmente come appare. Si potrebbe ambientare anche in Italia un romanzo così o lo vedi prettamente americano?
R.:
Sicuramente. Io avevo il timore che mi venisse chiesto di ambientarlo in Italia. Parliamoci chiaro, di autori italiani che ambientano i loro romanzi all’estero sono pochi e gli editori hanno una ritrosia a farlo. I serial di grande successo sono degli amici Maurizio De Giovanni, Antonio Manzini, Camilleri perché fortemente caratterizzati nei territori italiani.
Ho cambiato editore con questo romanzo e sono passato da Feltrinelli a Piemme, proprio perché quest’ultimo è già strutturato da comprendere e valorizzare il genere (vedasi Connelly, La ragazza del treno ecc.). C’era spazio per proporre qualcosa di diverso e ho provato.

4. Avevi forse voglia di fare qualcosa di diverso per paura di essere etichettato o ingabbiato solo con un genere e non riuscire a svincolarti?
R.:
Certo, è stato anche per quello. “Io la troverò è andato bene”, nonostante Feltrinelli non sia mai stato strutturato per quel genere, vendendo migliaia di copie. Della serie FoxCrime io e Grazia Verasani siamo stati fra gli autori che hanno venduto più romanzi, ma non è un problema di copie vendute, quanto quello di arrivare a più lettori. Dario Argento rispose a un’intervista al quale gli chiesero “Perché fai tutto questo?” e lui rispose: “Lo faccio per essere amato.” E io penso la stessa cosa. E’ passione pura, io scrivo per essere amato, per dare qualcosa di me agli altri, stare con la gente, fare le presentazioni.
Leggere recensioni positive dei lettori è gratificante. Io spero che questo romanzo vada bene e vorrei continuare a pubblicare con Piemme, visto che ho un altro thriller già pronto, anche il titolo!

5. Hai citato un romanzo è una bugia che nasconde molte verità. Come si fa a mantenere bugie e verità, come le crei?
R.: Un autore racconta una storia inventata, quindi una bugia, ma in quella bugia nasconde molte verità. Il mio penultimo romanzo Città di polvere raccontava di un aspetto sociale, qui non c’è.

6. Ci sono autori che quando scrivono scelgono solamente libri di genere molto simile al proprio. Altri invece preferiscono cambiare totalmente genere. Tu da che parte stai?
R.: Io leggo di tutto, sono arrivato a leggere almeno cento libri all’anno. Ho una vita molto impegnativa ora e arrivo al massimo a cinquanta libri all’anno. Seguo anche una ventina di serie TV in lingua originale, leggo fumetti. Dei 50 libri almeno una decina sono di genere thriller e noir, leggo Moresco, ad esempio. Per scrivere è fondamentale leggere. Dice Raul Montanari: “Scrivere senza leggere è come pretendere amore senza essere disposti a darne.”

Ci sono autori molto famosi in Italia che affermano di leggere solo i classici e non i contemporanei. E’ un atteggiamento sbagliato, bisogna leggere di tutto. Il mio primo giallo fu pubblicato da Mondadori e rispetto all’inizio sono cresciuto molto, perché ho continuato a leggere di tutto. Solo così puoi dare molto ai tuoi lettori.

A Milano Raul Montanari ha una scuola di scrittura creativa, la migliore in Italia. Molti scrittori che hanno frequentato la sua scuola hanno poi pubblicato con editori importanti. Io giro tra Modena, Milano e l’Abruzzo, quindi non ho potuto frequentare, ma mi definisco uno dei suoi discepoli. Raul mi ha insegnato cosa leggere e tanti trucchi del mestiere. Il talento di inventare storie è l’unico che mi riconosco, la tecnica della scrittura si impara.

7. Com’è nata l’idea di questo romanzo?
R.: Innanzitutto è nata la voglia di fare qualcosa di diverso. Mia sorella vive in America e ogni volta che vado a trovarla giriamo molto. Ha dei vicini, tra l’altro, che sono molto simili a quelli che descrivo nel mio romanzo. Loro non aspettavano altro che uscisse il mio romanzo.

Situazione di una coppia benestante, in cui accade qualcosa che infrange questa idea di serenità. Inizialmente non c’era la storia che si svolge 35 anni prima.

Inizialmente avevo chiesto alla mia cara amica scrittrice Marilù Oliva di scrivere il romanzo a quattro mani, immaginandomi le difficoltà che avrei avuto a descrivere un personaggio femminile. Due anni fa, in occasione del Premio Scerbanenco, ne parlammo e accettò. Poi cambiò idea perché reputava fosse giusto che la storia fosse attribuita solo a me. Col senno di poi, sono contento di essere riuscito ad andare avanti da solo.

Non c’erano i retroscena dei 35 anni prima, però. L’idea mi è venuta nel corso della stesura. Non è un fatto realmente accaduto, comunque. Non avrei mai voluto urtare la sensibilità di chi potesse leggere. La cosa drammatica è che, a romanzo ormai scritto, sentii una notizia nella quale in Baviera furono ritrovati otto cadaveri di bambini sotterrati nel giardino uccisi da una donna. La realtà è davvero capace di superare la fantasia!

Io sono ancora oggi sconvolto dell’episodio di Fortuna, la bambina di Napoli. Nel romanzo che sto scrivendo ora c’è una storia simile, perché scrivere mi aiuta a tirare fuori i mostri dei miei incubi.

8. Parli nel romanzo di una sorta di tour macabro della casa descritta nel tuo romanzo, è veramente così anche nella realtà?
R.: Richmond è una città molto diversa dalla città opulenta che descrivo, Vienna. Mio nipote si è laureato in cinematografia e viveva proprio nella casa descritta nel mio romanzo. L’America, visto che ha una storia molto recente, non ha siti storici particolarmente interessanti, ad esempio a Vienna c’è un museo della città perché una volta semplicemente passava una ferrovia.

Ho visitato anche la casa di Poe, una delusione! Quindi le case in cui si commettono dei crimini diventano mete di pellegrinaggio. Pensate che mia sorella è stata ad Albuquerque, in Messico e mi diceva che perfino i proprietari della casa in cui hanno girato Breaking Bad – quindi non parliamo di cronaca – hanno dovuto chiedere la presenza fissa della polizia per l’affluenza delle persone.

9. Mi è piaciuto molto il personaggio di Gina Cardena, ce ne parli un po’?
R.: Mi sono sempre interessati i personaggi femminili, li reputo più di spessore, più sfaccettati e profondi. Anche in Città di polvere ho raccontato di donne che poi risolvono le situazioni, anche se i protagonisti erano due uomini.

In questo caso racconto di una detective di colore, nel ’79 in cui si svolge il flash back, un personaggio che deve lottare contro un establishment del dipartimento di polizia di Richmond, razzista e chiuso nei confronti di una donna diventata detective molto giovane. Per alcuni versi simile a Laura Damiani, un personaggio molto forte.

Nella storia ambientata nel presente entra in gioco anche un poliziotto, ma rimane di contorno. Non ho descritto molto l’aspetto delle indagini, ma ho voluto puntare sulle persone. Mi piaceva l’idea che Gina Cardena e Sandra Morrison, due donne diverse per età ed estrazione sociale, a un certo punto si incontrano e si confrontano.

10. Seth, il bambino di cui si parla all’inizio del romanzo, mi ha colpito per la sua particolarità. Ce ne vuoi raccontare?
R.: Al principio del romanzo, quando si parla del 1979, il romanzo racconta dei bambini ritrovati morti all’interno della casa. Tranne uno. Ha 7 anni e viene ritrovato vivo in questa casa degli orrori, con la sua storia di di soprusi e di violenze, perché l’America è anche questo. I fatti avvengono anche in Europa, ma i grandi spazi in America favoriscono isolamenti di famiglie che vivono in maniera disumana.

E’ quello che accade alla famiglia di questo bambino, che viene segnato in maniera indelebile e la sua vita sarà il frutto di quello che ha subìto.

E’ un personaggio chiave del romanzo di cui non si può svelare altro.

11. Nel romanzo mi colpiscono le storie delle due donne, madre e figlia, che hanno perso una persona importante, una del marito e l’altra del padre. Il dolore è diverso perché in queste situazioni le persone spesso tendono ad allontanarsi come succede a Sandra e Devon. Hai inserito la bellissima poesia tratta dall’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters…
Per Sandra, oltre al dolore della perdita del marito subentra subito il terrore di aver vissuto con una persona diversa rispetto a quello che lei credeva. Quindi ha la paura di non scoprire mai la verità. Mentre per la figlia scatta subito un meccanismo di negazione, non accetta la morte del padre e men che meno le dicerie su di lui.

Siccome la vivono in maniera diversa, non riescono a comunicare tra loro e si forma una barriera difficile da abbattere. Anche io ho subìto delle perdite in famiglia – come molti del resto – e a seconda dell’età il dolore si vive in maniera diversa, difficilmente si riesce a comunicarlo agli altri. Sandra ha tutto il carico del mondo addosso, in più è una madre e deve farsi il carico del dolore della figlia.

Non sono un lettore particolare di poesie, tranne Tiziano Scarpa, Aldo Nove e questa bellissima antologia di Spoon River, in particolare Elizabeth childers. Mi colpì talmente tanto che ho voluto inserirla all’interno del romanzo, tradotta da me.

12. Sapevi dove sarebbe andato a parare il romanzo all’inizio? Era già previsto l’exploit finale? E ne parli con qualcuno quando hai in mente una storia? TI fai influenzare?
R.: Quando invento una storia, so già dove si ambienterà, chi saranno i protagonisti e come andrà a finire. Tutto quello che c’è in mezzo lo creo. Anche nei polizieschi o nei noir, la sorpresa finale c’è, anche se non sempre è richiesta. Non è pensabile costruire una storia di cui non conosco il finale, è il piatto forte.

Quando ho l’idea ne parlo con alcuni, ad esempio la mia compagna è la prima lettrice, che tenta di darmi consigli e suggerimenti. Non mi faccio influenzare, ma rimango aperto ai consigli e durante l’editing posso anche cambiare aspetti o personaggi.

13. Che direzione prenderà il thriller o il giallo in Italia? Ogni paese ha il suo stile già consolidato, come quello nordico o americano. Da noi come sarà?
R.: Io ho scritto un thriller perché secondo me in Italia è un treno che lascia alcuni spazi di esplorazione. Carrisi ad esempio è lo scrittore italiano più venduto all’estero, ha un suo genere ben definito – quello anglosassone.
Visto che il noir ha fatto il suo tempo, forse troppo inflazionato da sedicenti noir, altri scrittori italiani si sono cimentati con il thriller, come Dazieri e Carlotto. Ho voluto provarci anch’io, non utilizzando un serial killer perché l’aspetto truculento non mi interessava.
Dove va il thriller italiano non lo so, lo vedremo. Alcuni nuovi autori ci sono, guardate Mirko Zilahy o Luca D’Andrea, ad esempio. Ma ancora pochi a mio avviso. Quindi c’è spazio per scrivere e spero di ricavarmelo anch’io in questo universo!