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Antonella Lattanzi è nata a Bari nel 1979, vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi Devozione e Prima che tu mi tradisca (Einaudi Stile libero). Scrive su “Tuttolibri” e “Il Venerdì di Repubblica”. Per la tv ha collaborato al programma “Le invasioni barbariche”, per il cinema ha scritto le sceneggiature di Fiore di Claudio Giovannesi (nella Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2016) e di 2night di Ivan Silvestrini (in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2016).
L’abbiamo incontrata a Milano in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo edito da Mondadori, “Una storia nera” e ci siamo fatti raccontare qualche curiosità.
1. Da dove nasce l’idea di questo romanzo?
A.: Mi piace molto scrivere libri e anche film che partano dal reale. Quindi la questione femminile, il femminicidio, e la violenza sulle donne mi hanno sempre interessato. Quindi ho studiato vari casi di cronaca per poter scrivere questo libro, anche se penso che l’immaginazione romanzesca sia il quid che fa la differenza. Infatti non ho scritto una storia realmente accaduta, ma una storia inventata cercando di rispecchiare la realtà.
2. Quello che mi è piaciuto di più è stato il non partire dall’atto violento in sé, ma far vedere tutte le conseguenze dell’onda lunga che la violenza familiare ha su tutti, non solo sulla moglie o sui figli e vedere che non se ne esce mai. E qualcosa che semina e fa germogliare solo altro male. Tutti i punti di vista che hai usato per raccontare la storia alla fine sono tutti personaggi che si sono persi.
A.: Sì, sono tutti personaggi vittime di un imprinting di violenze, quindi anche i figli che lottano disperatamente per essere altro dai genitori, alla fine soccombono sotto i ruoli che sono stati inventati per loro.
3. A volte sembrano sovrapporsi e anche alla fine il colpo di scena finale, anche quella che doveva essere la più estranea di tutti è un mezzo che viene usato, è una vittima.
A.: Sono tutti vittime e carnefici, perché io ho tentato di non fare personaggi che fossero solo positivi o solo negativi. Anche Vito, che è l’orco per eccellenza, è una persona che viene considerata stimabile all’esterno, che non ha mai picchiato i figli, che ama tanto anche la sua amante, quindi è un personaggio che ha anch’esso zone di ombra e zone di luce. Volevo che tutti i personaggi fossero positivi e negativi, ma sicuramente tarati, danneggiati da questa violenza che li ha pervasi da quando sono nati. Anche perché i personaggi cambiano a seconda di chi li sta guardando, per cui anche Vito ha tante sfaccettature, per alcuni un santo, padre meraviglioso, per altri un violento. Questo mi è piaciuto da matti.
4. Un sentimento d’ambiguità. In base al momento di chi li vede molto forte ma molto bello. Un personaggio che non si esaurisce mai ma ha tanto da dire durante tutto il romanzo.
A.: Mi interessava un racconto poliedrico con tante voci, ognuna delle quali avesse la sua versione e non ci fosse un narratore onnisciente che poteva ricostruire la verità cosi come era accaduta. Devi per forza leggere le varie versioni dei vari personaggi, per andare avanti di volta in volta e cercare di capire un nuovo pezzo di verità, capitolo dopo capitolo, anche sulla trama ho lavorato molto per cercare di dare questa tensione, che non venisse mai ripetuta la stessa informazione e, come un vero noir, ci fosse sempre qualcosa di nuovo.
5. Ho letto le trame dei romanzi precedenti e mi piacerebbe arrivare a questo romanzo attraverso gli altri due. Nel libro “Devozione” si parla di dipendenza e mi è piaciuto il passaggio: “…dallo stare bene “con” allo stare male “senza”” in cui si parla di tutti i tipi di dipendenze. Anche in questo vi è una sorta dipendenza dai legami familiari, come tra Vito (il marito) e Carla (la protagonista), tra Carla e i figli, tutti devoti a questo personaggio chiave che è Vito e che quindi ne dipendano in qualche modo.
A.: Quando presentavo “Devozione” dicevo sempre che la devozione è stare bene “con” qualcosa, la dipendenza è stare male “senza” qualcosa. E’ un sentimento brutto e negativo, e la stessa cosa succede a questi personaggi, stanno male senza l’altro, ma non stanno bene uno con l’altro perché comunque c’è sempre questo sottofondo molto forte di paura che li lega e di quest’amore ossessivo che li tiene stretti l’uno contro l’altro.
6. Ho letto in un’intervista che ti piace molto il cinema neorealista. Si percepisce anche nel romanzo, in cui viene spiegata una situazione senza dare mai un giudizio in tutto quello che succede. Non viene mai detto se una cosa è giusta o sbagliata. Nella stesura di questo romanzo qual è stata la cosa più difficile?
A.: La trama, perché doveva essere una trama tirata e non bisognava cadere in facili trappole, perché è anche un noir e quindi il lettore non doveva sapere quello che sarebbe successo dopo. Quindi ho cercato di raccontare un noir alla Simenon, cioè senza dare il giudizio su chi ha compiuto l’atto e perché, ma cercando di raccontare la psicologia dei personaggi attraverso ciò che fanno e non attraverso quello che pensano.
7. Visto che hai citato Simenon, una delle domande che volevo farti è chi sono i tuoi modelli letterari, in quanto mi è piaciuto il fatto che tu abbia saputo coniugare una grande storia familiare ed anche una storia d’amore, in fondo, perché parliamo di un matrimonio, della sua nascita e del suo sviluppo e di quello che è successo dopo. E poi c’è questa storia nera che mi ha preso tantissimo. Il tuo stile non mi ha ricordato nessuno scrittore, penso sia positivo.
A.: Simenon certamente è un mio modello. Anche Scerbanenco, come scrittore italiano e Philip Roth che non c’entra con il giallo né con il noir. Però questo sguardo che hanno Simenon e Scerbanenco di non giudizio, non morale sui personaggi e l’uso del noir per raccontare le persone più che raccontare chi ha fatto cosa, chi ha ucciso chi, questo per me è importantissimo.
Sono appassionata di Un giorno in pretura, perché è una trasmissione che non ha la pruderie del gossip nero, della cronaca nera. Ho studiato la parte processuale che permette, attraverso la messa in scena di ciò che è successo, di incontrare personaggi che altrimenti non incontreresti mai nella vita reale.
8. Hai riservato qualche stoccatina al sistema italiano, anche a qualche giudice che compare su facebook…
A.: Sì, perché queste donne sono veramente sole, cioè la mia Carla ha tentato in tutti i modi di farsi aiutare ma è vero che le donne vengono lasciate sole a morire e quindi la domanda è: “Devo morire? Se mi trovo in questa situazione cosa faccio?”. Per me questo è stato un grande dilemma durante la scrittura.
9. A me ha colpito come è andato avanti il processo quando si è trovato il colpevole, all’inizio con un giudizio molto netto nei confronti di questa persona, classificato come mostro e poi a mano a mano che c’era il calo delle notizie a livello mediatico, si tendeva quasi a dimenticare i motivi per cui c’era stato questo omicidio, a giustificare il colpevole.
A.: E’ sempre un po’ così, l’opinione pubblica decide che due persone sono colpevoli e li colpevolizza anche oltre, dopo che la giustizia li assolve. Se poi decide che sono innocenti, dimentica tutto quello che c’è stato prima e sposa la causa di chi è sotto processo due volte, dallo stato e dall’opinione pubblica. Questo fa molto male, perché una volta che l’opinione pubblica ha deciso che tu sei colpevole non tornerai mai più innocente anche se la giustizia dovesse dimostrarlo. Ciò si ritorce nei confronti della tua famiglia, dei tuoi affetti, di tutti quelli che stanno intorno a te: sei nato in una famiglia di un certo tipo, e in quel momento ormai sei il figlio, il fratello, lo zio di una persona di un certo tipo.
10. Nel romanzo c’è anche tanto spazio, soprattutto nella prima parte, per una riflessione sulla famiglia; in questo caso c’è anche la violenza al centro. Cosa volevi far emergere come dinamiche fondamentali della famiglia nel tuo romanzo?
A.: L’impossibilità di staccarsi definitivamente dall’imprinting familiare, di essere persone senza passato. Puoi essere migliore dei tuoi genitori, ma il tuo passato è quello e quindi puoi essere in opposizione a loro, uguale a loro, o diverso da loro ma in ogni caso sei un prodotto della famiglia. Non puoi cancellare, non puoi dimenticare, puoi lottare per essere qualcosa di diverso ma sarà sempre una lotta, non sarà mai qualcosa di semplice.
11. Nei noir di femminicidio ne parlano solo le donne, come mai secondo te? Gli uomini si sentono esenti da questo argomento, come a dire: “Io non sono violento con le donne e non ne parlo.”?
A.: Non è una cosa che li tocca da vicino, perché forse gli uomini finché non lo fanno pensano di essere totalmente diversi da chi lo fa, o forse gli uomini che usano violenze mentali pensano di essere diversi da quelli che usano violenze fisiche. Volevo raccontare in questo romanzo che gli uomini non sono cattivi e le donne sono buone, ma che esistono uomini e donne buoni e cattivi. Non è una difesa a spada tratta di un unico genere, anzi è proprio il racconto del contagio del male. Ad un certo punto Carla dice: “Se io fossi stata forte come lui sarei stata io a trattarlo come mi trattava lui. E dice che la gelosia era un sentimento che apparteneva tanto a lei quanto a lui, che loro due erano uguali. C’è una denuncia della solitudine in cui queste donne sono lasciate. Non c’è una stigmatizzazione di uno e dell’altro.