Intervista a Andrée A. Michaud

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Andrée A. Michaud nasce a Saint-Sébastien-de-Frontenac, in Québec. Dopo aver studiato filosofia, lingue e cinema, si dedica alla scrittura, ottenendo un immediato apprezzamento di critica e pubblico per lo stile inconfondibile che caratterizza i suoi gialli. Due volte vincitrice del Gouverneur Général, il più importante premio letterario canadese, con L’ultima estate ha conseguito anche il Prix Quais du Polar, il Prix Saint-Pacôme per il romanzo poliziesco, il Prix du Conseil des arts et des lettres du Québec, il Prix Rivages des Libraires e il Prix Arthur-Ellis.
Marsilio Editore, nella collana Farfalle / I gialli, ha pubblicato il suo romanzo intitolato L’ultima estate, già recensito su questo blog da Antonio Vena, che l’ha anche intervistata.

1. Signora Michaud, l’Ultima Estate ha una folla di voci, personaggi, fantasmi e desideri. Un coro di pensieri, linguaggi e musica. Eppure uno dei personaggi più importanti sembra essere la natura selvaggia che circonda la cittadina e la sua gente. Possiamo considerare la Natura uno dei personaggi principali del suo romanzo?
A.: Non considero realmente la natura come un personaggio, piuttosto come la base sulla quale poggia la trama, come l’elemento costitutivo ed essenziale del racconto. Senza questo elemento non c’è alcuna storia, la trama si sfalda perché è priva dei suoi riferimenti fondamentali. La natura è ciò che permette il racconto e lo ingloba, ma non agisce come un personaggio. Agisce piuttosto come una forza che influenza il destino dei personaggi e serve da motore alla storia.

2. Ci sono pochi dialoghi ne l’Ultima estate. Nello spazio interiore, come comunità e individui, si svolge una lotta tra linguaggi. Due brutali omicidi ma ancora superare l’indicibile è la prima sfida di Michaud e i suoi investigatori? 
A.: Poiché Bondrée si svolge sulla frontiera tra la Beauce, in Québec, e il Maine, negli Stati Uniti, questa particolare situazione geografica mi ha permesso di affrontare la questione della lingua, della difficoltà, per due comunità, benché molto prossime sul piano geografico, di comunicare facilmente. Per portare avanti la sua indagine, l’ispettore Michaud, che non ha ereditato la lingua dei suoi antenati francofoni, deve dunque servirsi di un interprete.
La lingua non è tuttavia che uno degli aspetti che affronto per creare un parallelo tra due culture vicine, che si avvicinano su alcuni punti, ma che restano fondamentalmente distinte su altri piani. Bondrée rappresenta infatti per me il terzo episodio, dopo Mirror Lake e Lazy Bird, due altri miei romanzi, di quella che ho chiamato la mia trilogia statunitense, che non è affatto una trilogia classica, con personaggi ricorrenti, ma riposa sulla prossimità geografica, come pure sulla parentela e sulle differenze tra la cultura del Québec e quella nord-americana nel suo insieme.

3. Boundary, una idilliaca cittadina di vacanza, è in realtà un ambiente colmo di perturbanti. L’arrivo dell’adolescenza delle due vittime sembra essere l’ultimo. Un velo di Maya cade e la fragilità della società umana viene esposta. Non è questa la missione del romanzo crime?
A.: Il romanzo noir può effettivamente rivelare la fragilità di una società, di una comunità o di un individuo, che quest’ultimo sia la vittima o il criminale. Non credo tuttavia che questo sia l’unico fine del romanzo noir, o che tutti i noir si propongano questo obiettivo. Nel caso di Bondrée volevo infatti parlare dell’inevitabile crollo di quello che possiamo considerare come un paradiso. All’inizio dell’estate del ’67, nessuna nuvola offusca il cielo di Boundary Pond e si ha l’impressione che nulla possa disturbare la calma o alterare il candore di questa piccola comunità. Ciò nonostante, il male vi è già all’opera all’arrivo degli uomini nella regione e, di conseguenza, dal suicidio di Pierre Landry. Essendo una pura illusione l’esistenza di qualunque paradiso, le tinte di Bondrée non potevano che adombrarsi. Allo stesso modo, la giovane narratrice chiamata Andrée perderà poco a poco le illusioni dell’infanzia. Bondrée è la fine dell’innocenza, la presa di coscienza che qualunque paradiso si voglia credere reale non è altro che un’illusione.

4. Procedo a fare una lista di capolavori thriller/crime di indiscutibile merito letterario: Running Dog di Don DeLillo, la Volontà del male di Dan Chaon, Red riding quartet di David Peace, La carta e il territorio di Houellebecq, l’Ultima estate di Andrée A. Michaud. Ha mai sentito un qualche tipo di pregiudizio come scrittrice crime?
A.: Prima di tutto, ammetto in tutta umiltà che sono orgogliosa di far parte di questo gruppo. Detto questo, la mia risposta alla vostra domanda è «sì». Non ho alcuna vergogna che mi si consideri o mi si presenti come un’autrice di thriller in quanto la qualità letteraria di un’opera non dipende da alcuna categorizzazione. Detto questo, l’etichetta mi si è talmente attaccata alla pelle che, dopo Bondrée, sembra che tutti abbiano dimenticato che non ho scritto esclusivamente dei polizieschi. Sono stata consacrata un’autrice di thriller senza tener conto delle mie precedenti pubblicazioni che, pur avendo tutte una parte di mistero, non potevano per questo essere considerate come polizieschi. Questo è il problema delle categorizzazioni, vi vogliono chiudere in compartimenti rigidi o vi relegano alla fine di un corridoio da cui l’angolo visuale è estremamente ristretto e dove le sfumature non esistono che per collocarvi in una categoria ancora più ristretta.

5) “Bondrée era appena entrata in una nuova era glaciale”.
Il titolo italiano di Boundary è l’Ultima estate.
Amitav Ghosh scrisse nel 2016 la Grande cecità, una chiamata all’impegno rivolta a intellettuali, artisti e scrittori per abbandonare la cecità sul rischio e la sfida del cambiamento climatico nella fiction.
Ho letto l’Ultima estate come un romanzo che risponde a questa chiamata. Come è e sarà scrivere fiction nell’Antropocene?
A.: Mi domando dapprima se siamo veramente in un’era che possiamo chiamare antropocene poiché il termine è contestato da diversi pensatori, tra i quali il mio compagno, che ritengono ci si trovi piuttosto nel capitalocene, e che parlare di antropocene è dare molta importanza all’uomo qual è oggi, cioè l’uomo che agisce sull’ambiente a partire dalla rivoluzione industriale. L’uomo, dai Neanderthal, ha sempre agito sull’ambiente, ma non sempre nel modo così distruttivo che usa l’uomo moderno.
Qualunque cosa sia, questo non è veramente il punto. La questione è sapere se gli scrittori, gli artisti e gli intellettuali debbano prendere posizione nelle loro opere rispetto alle questioni legate ai cambiamenti climatici o se debbano orientare il loro proposito letterario in funzione della minaccia attuale. Non credo. Infatti, per dirlo più chiaramente, questo impegno non deve in alcun modo essere un imperativo, in quanto nessuna opera d’arte deve riposare sulla costrizione, su una parola d’ordine o su un grido di adesione. Questo non significa tuttavia che lo scrittore non debba essere impegnato in ciò che concerne il clima. Dal mio punto di vista, l’impegno deve essere legato alla necessità dell’opera, deve rispondere ai bisogni dell’opera e non il contrario. In altri termini, l’arte che si crede obbligata a mettersi al servizio di una causa rischia di perdere di vista il proprio obiettivo. È l’eventuale causa che deve essere al servizio dell’opera e non viceversa. In Bondrée, per esempio, non ho cercato di far passare un messaggio. Il messaggio era là, nella trama del racconto, e può riassumersi così, secondo me: la natura trionferà sempre sull’uomo, perché l’uomo non sa tener conto del fatto che fa parte intrinsecamente della natura e che, quando l’avremo esaurita, quando le sue risorse non saranno più sufficienti, non solamente al nostro appetito insaziabile, ma alla nostra semplice sopravvivenza, lei riuscirà a rialzarsi senza di noi poiché, in ogni caso, non ha mai avuto bisogno di noi. La questione qui è sapere se vogliamo o meno sopravvivere come specie.
Aggiungerei anche che qualunque opera che si rispetti è necessariamente in linea con la sua epoca e che è quasi impossibile che il vento di quest’epoca non vi penetri in un modo o nell’altro. Il fatto è non esagerare, del genere «ehi, guardatemi, vi sto lanciando un gran bel messaggio, questo è un romanzo con una tesi che non mancherete di rimarcare» Se si rompono tutte le finestre per far entrare il vento, si fa crollare tutta la baracca.
Dal momento che le mie opere sono opere di fiction e non dei saggi nei quali dovrei provare una qualche tesi, ci tengo che sia la fiction in primo piano, la trama, l’atmosfera; è per questa ragione che mi si legge, è solo in questo modo che sono in grado di farlo e che posso mostrare il mio punto di vista rispetto allo stato del nostro mondo.

6. La forza e la bellezza di un romanzo poliziesco come l’Ultima estate sono nella complessità di metafore e nella ricchezza di linguaggio. Sforzi rari. Scelte divergenti. Può raccontarci qualcosa sul suo metodo e routine di scrittura?
A.: Non ho una routine, piuttosto delle abitudini sulle quali mi sembra più o meno interessante basarsi. Dirò semplicemente che mi piace attorniarmi di gatti per scrivere e che ho bisogno di qualche stimolante come il caffè, il cioccolato e il tabacco.
Quanto al mio processo di scrittura, varia ovviamente da un romanzo all’altro, ma, in quasi tutti i casi, è un luogo che mi ispira, un luogo la cui la forza di attrazione particolare attirerà la mia attenzione e a partire dal quale costruirò la trama. Cerco in prima battuta di impregnarmi di questo luogo, di carpirne le particolarità, di percepirne gli odori e i rumori per poi farvi entrare i miei personaggi. Il luogo, per quanto mi riguarda, precede il racconto. È da quest’ultimo che nascono il racconto e i personaggi.
Mi approprio dunque per prima cosa attraverso i sensi dell’universo nel quale la trama si svilupperà, in modo da poterne descrivere l’atmosfera, poi mi ci addentro con i miei personaggi per individuare che genere di racconto possa svolgersi in questo dato luogo.

Intervista a cura di Antonio Vena