Intervista a Antonio Moresco

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Antonio Moresco è nato a Mantova il 30 ottobre 1947. La sua infanzia, la sua adolescenza e la sua giovinezza sono state contrassegnate da una condizione famigliare anomala, da grave difficoltà ad apprendere e problematico rapporto con la scuola, da tre anni di seminario e da dieci anni di lotta rivoluzionaria. La sua vita di scrittore è stata contrassegnata da una lunga gestazione sotterranea per il rigetto da parte dell’editoria, Ha esordito a 45 anni con un libro scritto a 30, intitolato Clandestinità. Da allora, passando attraverso molti editori grandi e piccoli, ha pubblicato più di trenta libri, tra i quali: Giochi dell’eternità, opera scritta nell’arco di 35 anni e in tre grandi parti (Gli esordi, Canti del caos, Gli increati), Lettere a nessuno, La lucina, Gli incendiati, I randagi, L’adorazione e la lotta.
Questo è solo una parte della biografia che potrete trovare sul sito dell’autore . Ha pubblicato per la casa editrice SEM il romanzo Canto di D’Arco e noi lo abbiamo intervistato.

 

1.Vorrei iniziare chiedendole quando ha deciso che Canto di D’Arco sarebbe nato e quando avuto la consapevolezza che sarebbe stata l’opera finale di un lungo viaggio?
A.: Questo libro ha una storia tutta sua. Alcuni anni fa ne avevo scritto la prima parte, che allora si intitolava L’addio, proprio perché pensavo che sarebbe stato il mio ultimo. Poi i suoi personaggi mi hanno chiesto altra vita e allora ho dovuto continuare a raccontare le loro gesta e ci sono state una seconda e poi una terza parte. Così le 200 pagine iniziali sono diventate le 700 del romanzo concluso. Perché uno scrittore non ha un controllo notarile su se stesso e sulla propria opera. Ne è in balia. Inoltre, come se non bastasse, sulla base di questa riapertura e di questo slancio, ora ho in mente – a parte un paio di piccole cose spiazzanti – una (nuova) ultima opera. Una cosa ardita, forse la più ardita che abbia mai scritto. Insomma, il mio canto del cigno deve ancora venire.

2.Il male e la morte spesso sono argomenti che vengono evitati, invece lei sceglie di farne un punto focale all’interno dell’opera, cosa rende questi argomenti così proibiti talvolta, eppure così allettanti?
A.: Sì, da un po’ di tempo i miei libri si collocano su quel crinale. Si vede che avevo bisogno, anche come scrittore, di sfondare e di oltrepassare questa dimensione concettuale chiusa. Questa idea lineare del tempo – messa tra l’altro in crisi da tempo dalla scienza – e questa idea della freccia orizzontale di vita-morte imprigiona le nostre vite e imprigiona anche la letteratura. Quando è tutto chiuso, quando l’orizzonte è bloccato, quando non ci si può estendere in orizzontale allora è il momento di espanderci in verticale. La letteratura deve spalancare gli orizzonti bloccati, non contribuire a chiuderli. Deve rifiutare il ruolo ancillare che le viene assegnato in questa epoca e le gabbie in cui è imprigionata, comprese quelle dei “generi”, come hanno sempre fatto gli scrittori del passato. Deve essere un passaggio, una cruna, tanto più in questa epoca in cui abbiamo logorato a tal punto il nostro rapporto con l’unico pianeta di cui disponiamo da trovarci di fronte a una prospettiva di fine di specie, in cui c’è un urgente e disperato bisogno di tutte le nostre forze per riaprire i possibili e inventarci un futuro.

3. Lei ha spesso scritto o pubblicato le sue opere in una lunga estensione temporale, ha mai sentito di essere una persona differente rispetto alla persona che aveva scritto precedentemente quel romanzo?
A.: Ci sono dei libri che ho scritto nell’arco di 14 anni (Canti del caos) e altri nell’arco di 14 giorni (La lucina). Eppure in tutti e due i casi non mi pare di essere cambiato durante l’arco, lungo o breve, in cui li ho scritti, come se 14 anni e 14 giorni fossero la stessa cosa, come se la trance in cui vivevo scrivendoli avesse fermato il tempo.

4. Da lettrice, lasciandomi avvolgere dalle sue pagine, mi sono immaginata in uno spazio angusto e buio durante la lettura di questa opera, quindi mi piacerebbe scoprire in quale luogo ha preso vita.
A.: Quest’ultimo libro è stato scritto soprattutto nella mia casa di Milano, sul mio tavolo di lavoro, in fondo al letto, e in un altro luogo isolato dove vado ogni tanto a rintanarmi quando devo stare concentrato al massimo. Il primo posto è buio, perché la mia casa da su un cortile interno. Nel secondo invece c’è luce. Come in questo libro, in cui c’è molto buio e c’è molta luce.

5. Molte riflessioni contenute nell’opera sembrano adatte a un pubblico più maturo, eppure noto con piacere che invece i lettori di oggi sono anche lettori molto giovani. Cosa direbbe loro per far sì che possano iniziare a meditare su alcuni aspetti della nostra vita e della nostra società?
A.: Mi sta succedendo una cosa strana. Anche se ho la barba bianca, anche se non ammicco ai ragazzi con una prosa giovanilistica, i miei lettori sono soprattutto giovani e giovanissimi. Io non sono portato alle prediche, mi sembra molto meglio l’esempio, che non ti chiede niente in cambio, che ti lascia libero, che non crea sudditanza, che tu sei libero di seguire oppure no. Ma se dovessi per forza dire qualcosa a una ragazza o a un ragazzo gli direi: Non arrenderti mai, non scendere mai a patti con ciò che ti sembra inaccettabile, non spegnere mai la tua luce e il tuo sogno.

6. Leggere il suo romanzo mi ha dato un senso di sazietà, quello che sanno darti poche opere, che ti fa fermare per un po’ dal volere leggere altro, come se si fosse arrivati ad un confine: crede possa esistere un confine nella letteratura? C’è qualcosa che le parole non potranno mai affrontare adeguatamente?
A.: Il mio ultimo libro si svolge nella sua terza parte in una città di confine, dove i confini si spostano continuamente e dove il protagonista a poco a poco capisce di essere lui stesso un confine. Anche la letteratura, quella vera, quella grande, è posta su una linea di confine, è essa stessa un confine, un confine che sposta continuamente i confini.

7. Ringraziandola per la cortesia, mi piacerebbe concludere questa intervista chiedendole quanto di lei si è ritrovato a scrivere nelle riflessioni di D’Arco e quanto sia possibile mantenere separati scrittore e personaggi.
A-: Sono entrato nel personaggio di questo irriducibile sbirro morto come in un avatar, e in lui ho riversato la mia disperazione e il mio anelito. Ci sono scrittori di tutti i generi e tipi e in questo genere di cose è sempre meglio non generalizzare. Ma se è evidente che non c’è identità tra scrittore e personaggio (Collodi non è mai stato un burattino, London non è mai stato un cane da slitta), non capisco neppure la paura di vedere un legame forte tra i due, il voler negare un passaggio fertile tra autore e opera. Se penso a Melville, a Dostoevskij, a Kafka… è chiaro che non c’è identità tra questi autori e i loro personaggi, ma è altrettanto chiaro che se Melville non si fosse imbarcato come mozzo su una baleniera non avrebbe mai scritto Moby Dick, se Dostoevskij non avesse passato quattro anni ai lavori forzati in Siberia e non avesse vissuto con ogni genere di delinquenti e assassini non avrebbe mai scritto Delitto e castigo, se Kafka nella sua vita non si fosse sentito come un insetto non avrebbe mai scritto La metamorfosi…

Intervista a cura di Adriana Pasetto