Intervista a Enrico Fovanna

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Enrico Fovanna è nato a Premosello (Vb) nel 1961. Vive a Milano, dove si occupa di temi sociali, immigrazione, diritti umani. Lavora al quotidiano «Il Giorno» dal 9 novembre 1989, giorno della caduta del Muro di Berlino. Ha esordito con il suo romanzo Il pesce elettrico, ristampato nel 2002, ha vinto il Premio Stresa 1996 e il premio Festival del Primo romanzo, al Salone del libro di Torino 1997. Ha pubblicato anche per E/L e Utet e realizzato reportage da Paesi in guerra all’estero, tra cui Iraq e Afghanistan.

Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo libro giallo intitolato “L’arte sconosciuta del volo” per la Giunti Editore. Questo è quello che ci ha raccontato.

1.Ciao Enrico, è appena uscito il tuo romanzo L’arte sconosciuta del volo di Giunti Editore. Come ti è nata l’idea?
E.: Volevo parlare dell’infanzia, della mia in particolare che è quella che conoscevo bene. Otto anni fa è nata mia figlia e in queste notti insonni con i turni di biberon e tutto il resto ero avvinto dal sentimento profondo che non avevo mai provato verso un figlio, visto che è l’unica figlia. E ho rivissuto quell’emotività tipico dell’infanzia che da tempo non attraversavo più. Ho voluto raccontare i chiaroscuri dell’infanzia, che non è solo fiabe, ma anche inquietudini e paure. E’ un mix di sentimenti che hanno in comune di essere molto forti e ho avvertito che ci fosse un materiale narrativo dal mio punto di vista pazzesco per farne un libro.

2. Hai narrato un’infanzia quasi magica. Un’infanzia che, anche nei momenti dolorosi, resta sospesa in una dimensione speciale. Quanto della tua ne hai portato in queste pagine?
E.: La mia infanzia è stata la base di cucina del piatto, nel senso che mi ha ispirato con tutta una serie di episodi e di figure per raccontare questa storia. Procede da un mondo dell’infanzia degli anni ’60 ed evolve fino ai giorni d’oggi. Le figure e gli ambienti sono quelli che ho vissuto scoprendo il territorio nella mia infanzia nel nord del Piemonte vicino alla Svizzera negli anni ’60.

3. La parte autobiografica, quella che narra i giochi, i turbamenti, le scoperte, è facilmente intuibile. Quanti personaggi della vicenda prendono spunto dalla tua realtà?
E.: Siccome la location iniziale in cui si svolge la vicenda è la mia classe delle elementari, non nascondo da sempre di aver preso spunto da alcuni dei miei compagni. Stiamo parlando sicuramente della bambina di cui ero innamorato a sei anni, perché il libro alla fine è anche un’indagine su come nasca l’amore nell’infanzia di un essere umano, a me è successo. E non a caso forse mia figlia mi ha risvegliato quel tipo di amore angelico e pre-fisico che si vive a sei anni.
Oltre alla bambina, c’erano i miei compagni di classe, con le loro caratteristiche, alcune ironiche, con punti di forza e di debolezza e poi la figura del frate, che portava a giocare i bambini, realmente esistita – ora non più -, che ha ispirato uno dei personaggi chiave di tutta la vicenda gialla.

4. Vuoi parlarci della trama con parole tue?
E.: La trama non è così significativa, soprattutto in un giallo – e io non sono un giallista, premetto – è uno scheletro attorno al quale si costruisce invece quella che io chiamo la poesia della scrittura. Non ho pretese di esserci riuscito, lo dico con sincera modestia, ma secondo me la scrittura fa più della struttura. Detto questo, la trama in breve: c’è un bambino che a sei anni si trova in una classe delle elementari insieme al suo migliore amico, in cui tutti gli altri sono lì dalla prima. Lui scopre i suoi compagni di classe proprio mentre sta scoprendo il territorio, il suo paese con le montagne che gli fanno da confine. Due compagni di classe spariscono, c’è un paio di omicidi e l’inquietudine che si diffonde a macchia d’olio. C’è la ricerca del colpevole e un sospettato che è una figura molto vicina al protagonista, che è Tobia. Tutto finirà nel dimenticatoio e Tobia va via dal paese giurando di non tornare più perché ha sofferto molto. Invece viene richiamato quarant’anni dopo per la morte del matto del paese che faceva giocare tutti i bambini. Ritrova l’amico d’infanzia, Ettore, al funerale e da quel momento in poi si ritrova in modo assolutamente involontario a ripercorrere tutte le tappe della vicenda e ad affrontare il giallo che dovrà alla fine risolvere.

5. Sei stato accusato, in questo romanzo, di avere “staccato” con un taglio troppo netto passato e presente: premesso che non è un’opinione da me condivisa, questo “vuoto” di quarant’anni, senza mai una telefonata, uno sguardo ai social, non può sembrare eccessivo? Perché questa scelta?
E.: Sì, può sembrare eccessivo alla persona contemporanea media, quella che consulta Facebook, ha Instagram, si scrive su Whatsapp. Ma esistono anche persone diverse che decidono di non frequentare i social, il protagonista è uno di questi: è introverso, è una figura un po’ particolare. Quindi la scelta di non fare mai una telefonata ai suoi compagni d’infanzia è dettata dalla sua singolarità, da quando ha promesso al suo amico albero di non tornare più in paese, ha tagliato tutti i suoi contatti. Poi è l’amico che riesce a rintracciarlo, quindi di fatto riesce a fargli rompere questi quarant’anni di vuoto. Sono stato accusato di questo stacco, ma le opinioni sono varie e accetto tutti i tipi di critiche quando sono espresse in modo civile.

6. La seconda parte della vicenda, in cui il protagonista Tobia è adulto, ci regala momenti bellissimi legati al ricordo, ma anche agli incontri di oggi. Il protagonista fa dei sogni, quasi a cavallo fra realtà ed immaginazione: che significato hanno nella storia?
E.: Anche nel mio precedente libro “Il pesce elettrico” i sogni hanno un ruolo chiave, perché nella notte, quando noi spegniamo la coscienza, quando togliamo il tetto al nostro subconscio, l’inconscio produce i simboli, gli archetipi, i movimenti sotterranei più significativi per capire veramente chi siamo. Forse l’ho spiegato in maniera complessa…
Non a caso, amo molto Jung, che secondo me aveva sviluppato in meglio le teorie freudiane e lavorato parecchio sul sogno e sulla simbologia. I sogni, anche in questo romanzo come nel Pesce elettrico, hanno un significato molto simbolico per costruire come una sub-storia, quella sotto-storia che dice al lettore dove andremo a parare prima ancora che glielo racconti la narrazione vera e propria.

7.Hai paragonato le bozze del tuo romanzo a centinaia di fiabe che avresti inventato per far dormire la tua bambina. Nei racconti delle vostre scorribande, del famoso ciliegio su cui vi arrampicavate, dei giochi di allora, sei consapevole di avere fatto riscoprire, addirittura rivivere momenti d’infanzia a tanti tuoi lettori?
E.: Mi sono arrivati molti commenti ed è quello che mi ha fatto più piacere. L’altro giorno un mio amico mi ha chiamato dicendomi: “Sono cresciuto a Milano, ma ho ritrovato la mia infanzia nel tuo libro.” Questo mi ha proprio sorpreso, perché lui non è mai cresciuto in mezzo ai boschi, né ai ruscelli. Ne sono consapevole ma ancora adesso incredulo. Lo scopo di questo libro era condividere le mie emozioni primarie, quelle più profonde, che non a caso sono legate alla mia infanzia e che la nascita di mia figlia hanno risvegliato. Sapere di averle condivise con così tante persone che mi hanno detto di aver ritrovato l’infanzia attraverso il mio libro per me è la soddisfazione più grande di qualsiasi premio.

8. L’infanzia non si può raccontare mille volte, e questa tua a Premosello (paese assurto a gloria!) resterà unica e magica nel cuore dei lettori. Su quale argomento, allora, verterà la tua prossima fatica? È già…in pentola?
E.: Fatica è la parola giusta, perché in realtà per scrivere questo libro ci ho impiegato otto anni (e per il Pesce elettrico ne ho impiegato quattro). In realtà il prossimo libro è pronto, anche se da cesellare e rivedere completamente. Sarà un libro sul tema dell’amicizia maschile negli anni dell’università.

Intervista realizzata da Cecilia Lavopa a cura di Rosy Volta

Potete ascoltare l’intervista su www.onboox.com nella rubrica di Ms e Mr Yellow condotta da Cecilia Lavopa e Manuel Figliolini