Intervista a Giovanni Zucca

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Giovanni Zucca è nato a Piacenza nel 1957. Traduttore dal francese e dall’inglese, editor e consulente editoriale free lance, ha tradotto autori di thriller e noir (Maxime Chattam, André Héléna, Frederick H. Fajardie), poi è passato al true crime e a storie di guerra, parte di quel vasto settore noto come nonfiction. Tra le case editrici con cui ha collaborato Sonzogno, Rizzoli, Piemme, Cairo, Aisara. Ha ormai in curriculum anche una discreta lista di fumetti e graphic novel, da Tintin a Adèle Blanc-Sec, editi da Rizzoli Lizard.

1. Parliamo di te: Presentati da solo, magari spiegando con quale lavoro hai cominciato la tua carriera.
G.: Facevo altro, poi nel 1998 mi sono trasferito a Milano e ho ricevuto una proposta di collaborare con una casa editrice, come lettore di noir dal francese. A propormelo fu Andrea Carlo Cappi, traduttore, scrittore e molto altro.

2. Come sei approdato alla traduzione e con quale casa editrice?
G.: La Sonzogno, la stessa CE delle letture, me ne inviò una urgente, un giallo medievale. Compilata la scheda, mi chiesero se volevo provare a tradurre il romanzo. Dopo un momento di esitazione ci provai, la cosa funzionò e andai avanti, anche se allora avevo un altro lavoro con cui mi mantenevo. Formazione ‘on the job’, per così dire. Poi nel 2008 sono diventato free lance a tempo pieno.

3. Quali difficoltà incontri nell’approccio con un libro? E quali le principali differenze tra un romanzo e un fumetto?
G.: Sai, ogni libro ha i suoi problemi (specificità di linguaggio, necessità di documentarsi sui temi trattati, citazioni di testi da reperire), è difficile generalizzare… Spesso l’ho già letto prima, ho un’idea di cosa mi aspetta, ma altre volte lo ‘scopro’ mentre lo traduco. Quanto a romanzo e fumetto, a volte (ma non sempre) quest’ultimo richiede un maggior adattamento, una ‘fedeltà’ più elastica e un ‘occhio’ a quello che dice l’immagine ­– l’importante, romanzo, saggio o fumetto, è cercare di non essere mai ‘sleali’ (quello della lealtà al testo è un concetto sviluppato, con ben altra allure del mio stringato accenno, da Franco Buffoni, poeta e traduttore).

4. Come ti organizzi nella traduzione?
G.: A parte l’eventuale lettura preliminare, carico il file del testo originale (PDF o Doc, dipende – con i fumetti capita spesso di avere il testo cartaceo, con i libri ormai è raro) in un software di elaborazione testi che uso da qualche anno (si chiama Scrivener, lo si trova qui http://www.literatureandlatte.com): metà schermo visualizza l’originale, l’altra metà la pagina bianca da riempire; apro i dizionari online o installati sul computer (quelli su carta ormai li uso solo di tanto in tanto, in seconda battuta) e via. Di solito mi ci vuole un po’ per trovare misura e sintonia con il testo (certo, c’è il nonfiction anodino, dove magari occorre dare un po’ di brio, e il romanzo dove si sente la voce di un autore) e l’inizio spesso è da riscrivere proprio.

5. Cerchi di approcciare i personaggi e di conoscerli?
G.: Se mi piacciono, ci scappa anche un pizzico di immedesimazione… Su Willie Sutton, ad esempio, il famoso rapinatore protagonista di Pieno Giorno, ho cercato un sacco di materiale che mi aiutasse a inquadrarlo meglio.

6. Conosci gli scrittori dei quali traduci i libri? Ci deve essere una sorta di “simbiosi” tra il traduttore e lo scrittore per cogliere e rendere il significato del romanzo? E come fai a mantenerne il carattere?
G.: Ho conosciuto l’autore della mia prima traduzione, anche se a cose fatte, e ho avuto il piacere di essere presentato a Jacques Tardi, ma con la maggior parte degli autori che ho tradotto non ho avuto contatti (tranne via mail, in un paio di casi). Ci sono autori disponibili, mi dicono molti colleghi, e altri meno; diciamo che non mi è capitato, ma penso che possa essere molto utile un rapporto di questo tipo, soprattutto per testi di alto valore. Anche se c’è un altra ‘scuola di pensiero’, più perfida, secondo cui è meglio tradurre solo autori passati a miglior vita.
Non parlerei di simbiosi, per quanto mi riguarda; posto che tradurre un libro è un po’ come entrarci dentro e rivoltarlo come un calzino, per trasportarlo nella lingua madre del traduttore in modo che continui a sembrare “quel” calzino – anche se al tempo stesso sarà per forza “un altro” calzino – alla fin fine ci sono libri in cui entri di meno, che ti vanno stretti, oppure troppo larghi. Poi ci sono grandi autori che hanno trovato una ‘voce’ italiana ben precisa, e forse lì si realizza, nei casi migliori, una sorta di simbiosi (ti rimanderei, e i lettori interessati con te, a un bell’articolo che si trova qui http://rivistatradurre.it/2013/05/acqua-in-bocca-ovvero-tradurre-linfinito/ nel punto in cui Martina Testa e altri raccontano di cos’hanno provato alla morte di David Foster Wallace).

7. Dopo tante storie da tradurre, hai mai avuto voglia di scriverne una tua?
G.: Ho scritto e pubblicato molti racconti (quasi tutti ‘di genere’, noir e thriller), e di fatto ho cominciato a scrivere molto prima di tradurre. Ed è meglio se NON parlo dei pezzi di romanzo nel cassetto o nell’hard disk J … In ogni caso il traduttore–scrittore può essere pericoloso, diventare una sorta di bruto che attenta alla ‘verginità’ del testo originale, perché lo scrittore tende(rebbe) a prevaricare il resto, mentre il traduttore, dicono, dovrebbe essere invisibile. E qui si aprirebbe un lungo discorso, ma lo faremo un’altra volta 🙂

8. Ti capita di portare avanti la traduzione di vari libri contemporaneamente? Se si, come riesci a tenere separate le varie storie?
G.: È capitato sì, in questo lavoro capita di passare dal vuoto al troppo pieno (e viceversa). Come tenere separati i testi? Boh, non so dirti ‘come’, è un po’ come uno switch mentale, in qualche modo ci sono riuscito…

9. Raccontaci qualche aneddoto su un pezzo che hai tradotto.
G.: Non ho niente di particolarmente succoso, temo: le sviste di cui ti accorgi all’ultimo momento in rilettura e revisione, la gueule tradotta come ‘gola’ in un romanzo di Héléna, la nonna scambiata con la nipote in un dialogo del romanzo di J.R. Moehringer; i link in rete in cui ti imbatti mentre cerchi tutt’altro (una volta trovai lo spunto per scrivere un racconto, poi piazzatosi primo in un concorso); le rincorse affannose quando sei in ritardo, e menti a te stesso pensando (ma è una pura illusione) di poter rinunciare al sonno, all’uscire di casa, a fare la doccia o vedere un film, a qualunque altra cosa che non sia pestare sulla tastiera…

10. Quanta gratificazione c’è nel vedere la pubblicazione di un libro tradotto da te?
G.: Mi fa sempre piacere, certo, ma ho smesso di considerare il mio lavoro una sorta di “missione per conto di Dio”, vedi Blues Brothers. È un lavoro, più bello di altri (posto che ti piaccia smontare e rimontare parole, frasi, senso) e in cui non smetti mai di scoprire e imparare cose nuove, ma è un l-a-v-o-r-o, un mestiere, che a volte – e non lo penso solo io – viene un po’ “mitizzato”, specie dagli aspiranti traduttori. Io nel mio piccolo cerco di farlo decentemente, nei limiti delle mie possibilità, cercando per quanto possibile di imparare dagli errori e scambiare conoscenze con i colleghi e le colleghe, diversi dei quali sono parte di un’attiva community (cito le esperienze, diverse ma entrambe importanti, di una lista di discussione come “qwerty” e del nascente STRADE, il sindacato traduttori editoriali).

11. Secondo te, il lavoro del traduttore viene sempre riconosciuto appieno?
G.: No, non sempre. Magari è più facile finire nel mirino se hai sbagliato (capita, eh – siamo umani) che vederti elogiare se hai fatto bene. Giornali, siti internet, blog spesso non citano il nome del traduttore, pur essendovi obbligati per legge (e tenuti dal banale buon senso). Personalmente – e sottolineo personalmente – non ci soffro più, ma capisco e sono solidale con l’irritazione e la rabbia di molti colleghi di fronte a questo mancato riconoscimento (che non costerebbe nulla, ai vari media che lo negano) che rappresenta l’altra faccia dell’invisibilità del traduttore. Per questo occorre – a mio modesto avviso – un mix di passione durante il lavoro, e di atarassico distacco poi. Quanto al riconoscimento economico, i traduttori italiani sono (siamo!) tra i più malpagati d’Europa (non lo dico io, ma rilevazioni di enti europei come il CEATL e recenti indagini di Biblit e della CGIL, che hanno affrontato anche il tema del precariato in editoria).

12. C’è uno scrittore al quale vorresti tradurre un romanzo e non ti è ancora capitato?
G.: Da appassionato di polar, di noir francese (attualmente piuttosto trascurato dagli editori, salvo poche eccezioni) mi piacerebbe tradurre una serie di bravi autori d’oltralpe, se trovassi un editore interessato a creare una collana di questo tipo. Ma, come si dice, non trattengo il fiato in attesa che ciò avvenga (questo è un calco, a proposito 🙂 ). Se poi, in un blasfemo delirio di onnipotenza, potessi far resuscitare Jean-Patrick Manchette e fargli scrivere un romanzo per poterlo tradurre subito, caldo caldo…

13. A cosa stai lavorando adesso?
G.: Al momento, nessun noir o thriller in vista: sto traducendo un memoir molto divertente dall’inglese, cui seguiranno alcuni fumetti. Poi vediamo che succede… C’è forte crisi, speriamo di superarla e di poter lavorare di più e meglio, magari cogliendo le opportunità offerte dai cambiamenti in atto nel mercato editoriale (tutt’altro che indolori, come ho già scoperto anch’io) prima che ci passino sopra come un bulldozer.