[divider] [/divider]
Il panorama delle pubblicazioni di Piergiorgio Pulixi è vastissimo, ha creato due personaggi seriali, Biagio Mazzeo e Vito Strega, ha pubblicato una serie thriller intitolata I canti del male, di cui il primo libro è Il Canto degli innocenti. Tutto firmato E/O. Lo abbiamo presentato al Nebbiagialla 2018 – patron Paolo Roversi – per parlare della sua antologia di venti racconti uscita per la casa editrice CentoAutori, intitolato L’ira di Venere: protagoniste le donne in tutta la loro forza, la loro debolezza, tutte mosse da un’unica parola: amore.
1. Com’è nata l’idea di questa antologia?
P.: La cronaca è quasi sempre il magma narrativo delle mie storie, l’humus di temi e idee da cui attingo. In generale credo che chi scrive noir e romanzi polizieschi romanzo dopo romanzo, storia dopo storia, cerca di diagnosticare lo stato di salute della nostra società, raccontandone la mutazione, la “malattia” in un certo senso. Il tema della violenza di genere, dello stalking, del mobbing, delle minacce e dei ricatti informatici ai danni delle donne, e tante altre forme di violenza purtroppo ammorbano le pagine della cronaca nera dei quotidiani da troppo tempo.
È una situazione in cui la donna è sotto attacco e purtroppo la cronaca e i quotidiani non hanno sempre la capacità di andare a fondo nella ricerca delle motivazioni, del “quid” che ha portato al femminicidio (parola che mi garba poco, ma che rende l’idea di quello di cui stiamo parlando). Al contrario, la narrativa permette di entrare nella mente, nel cuore e nell’anima delle persone.
Era ciò che volevo fare. Raccontare venti storie dure e difficili ma altrettanto necessarie per cercare di capire – come uomo – il perché di tutta questa violenza. Ho voluto però spingermi oltre il limite del lecito, probabilmente, andando a violare quel confine (forse solo immaginario) che divide la scrittura femminile da quella maschile, perché le storie sono narrate da un punto di vista femminile e quasi sempre in prima persona. Ritenevo che adottando quelle voci avrei potuto ottenere un risultato più incisivo. Così ho scritto venti testimonianze di donne vittima di violenza che in alcuni casi da vittime diventano carnefici. Alcuni dei racconti sono ispirati a dei casi di cronaca reali.
2. Parli di amore come “il grande bugiardo, il crudele ammaliatore, l’assassino dalle labbra di miele. Quanti tipi di amore ci sono in questo libro?
P.: Tanti quante le donne protagoniste. L’unico elemento comune a tutti i tipi di amore presenti nella raccolta, e la “possessività” dell’uomo, che è un’ammissione totale di debolezza, fragilità e incapacità di gestire una relazione e probabilmente le responsabilità che comporta l’essere un adulto.
3. Perché scrivere di donne ma, soprattutto, quanto male si nasconde dietro l’amore?
P.: L’amore in sé non ha nessun elemento negativo, quantomeno se parliamo di un amore sano. Il vero problema è che gli amori ritratti nell’antologia sono amori tossici, sono amori amputati dell’essenza primigenia che li ha resi tali (o avrebbe dovuto farlo): l’empatia, la ricerca della felicità altrui e non soltanto propria, la cura, l’attenzione verso un percorso condiviso e non un labirinto di egoismo. Spesso l’amore altro non è che una stampella psicologica a cui delle persone deboli si appoggiano per non cadere sopraffatti dal gravame della propria inadeguatezza. Ma le altre persone non sono stampelle.
Possono essere d’aiuto, indicarci un percorso, ma non ci si può appigliare ad altri, perché a lungo andare la relazione si trasforma in qualcosa di “malato”. Quindi l’amore diventa una maschera per nascondere altre realtà, per celare dei disagi. Il partner diventa lo specchio delle proprie manchevolezze e, quasi che fosse un oggetto, alcune persone sfogano il proprio dolore e la propria rabbia verso quello specchio, dimenticandosi che si tratta di una persona.
4. Le donne sono protagoniste. A volte vittime e a volte carnefici. Come riesci ad immedesimarti così bene in una pelle che non è la tua?
P.: Credo semplicemente ascoltando con attenzione, osservando con cura e allenando la sensibilità che ognuno di noi ha, mettendosi nei panni degli altri. In questo caso, delle donne.
5. Mi è piaciuto particolarmente il passaggio di un racconto: “Non gridiamo al sangue, non invochiamo vendetta, non siamo vendicatrici, siamo soltanto donne. Siamo madri.” La donna ha mille volti in questi racconti, ce ne vuoi raccontare uno che ti ha coinvolto particolarmente o che hai avuto difficoltà a descrivere?
P.: Più o meno tutti allo stesso modo. Quando scrivi di questioni così tangibili e dolorose, è inevitabile dover sentire una responsabilità maggiore e, scrivendo per immedesimazione, è praticamente obbligatorio vivere il dolore, la paura, le ansie e i drammi dei propri personaggi, quindi il grado di coinvolgimento è altissimo. Quelli che mi hanno colpito più di tutti, credo che siano quelli che descrivono la situazione di “chi resta”, dei parenti delle vittime che devono avere a che fare con l’eco inestinguibile e assordante del vuoto che una perdita umana lascia dietro di sé. Quel silenzio perfora i timpani più di un urlo. Raccontare quel vuoto abissale mi ha colpito molto.
6. Quando la fuga è la soluzione al dramma di un amore?
P.: L’amore non dovrebbe essere mai un esercizio di salvezza. Spesso, invece, viene scambiato per questo. Il partner non è più una persona, ma una boa a cui aggrapparmi nel mare in tempesta della mia vita; non dovrebbe funzionare in questo modo. È naturale che, impostando la relazione su queste basi, prima o poi l’altro scappa. Ed è naturale e giusto che questo accada. Credo che le persone dovrebbero essere educate al riconoscimento dei prodromi della violenza: tutti quei segnali rivelatori di un disagio nell’altro, tutte quelle crepe nella relazione spesso molto difficile da intravedere e da cogliere.
Sull’inconoscibilità della persone che abbiamo al nostro fianco sono state scritte – e si potrebbero ancora scrivere – tantissime storie, e probabilmente non si arriverà mai a conoscere davvero qualcuno nell’intimità dell’anima; credo, però, che imparare a riconoscere i segnali e i campanelli d’allarme sia non solo necessario, ma doveroso. Uno dei veri problemi nodali è il fatto che in Italia non è mai stata fatta una vera “educazione sentimentale”.
7. Attraverso Massimo Carlotto e il collettivo mama Sabot hai saputo trasformarti da allievo a scrittore a tutto tondo. Qual è tra i suoi insegnamenti quello che metti sempre in pratica?
P.: Tutti che alla fine si racchiudono in una robusta etica professionale che ruota attorno al rispetto per i lettori, sempre e comunque. Quello più tecnico, invece, è l’osservare la realtà con molta cura e attenzione, senza perdere mai la curiosità verso tutto quello che mi circonda.
8. A tirare le fila dei racconti un personaggio su tutti, Carla Rame. Commissario di polizia. Quando è nata nella tua testa? Ci sarà un libro che la vedrà come protagonista?
P.: È nata qualche anno fa. Mi interessava raccontare il difficile mestiere del dirigente di Polizia da un punto di vista femminile. È un personaggio a me molto caro e a cui tante lettrici e lettori sono affezionati. Sì, ho scritto un libro inedito su di lei, e spero che prima o poi trovi la strada per la pubblicazione.
9. Sono svariati i temi affrontati di racconto in racconto. Alcuni veramente strazianti sembrano veramente fatti di cronaca nera. Quanto influisce questa sulla tua scrittura?
P.: Direi quasi che la plasma. La mia concezione personale del noir è una trasfigurazione letteraria della cronaca, arricchita da tutte le componenti psicologiche e morali dei protagonisti da ambo le parti della barricata che li divide.
10. In un racconto ritroviamo anche Mazzeo e la sua squadra. Ci possiamo aspettare il loro ritorno?
P.: Credo proprio di sì. Pensavo che il tempo avrebbe svigorito la nostalgia e l’attaccamento verso Biagio, ma in realtà non ha fatto altro che acuirlo. Tornerà, prima o poi. Lo lascio ancora a bagnomaria nei suoi sensi di colpa e nei rimorsi per un po’, poi lo rimetterò in pista, chissà, magari per il decennale dall’uscita di “Una brutta storia”. Vedremo. Ho tanti altri personaggi che vorrebbero prendere il suo posto nel cuore dei lettori, quindi chissà…
11. Spesso si chiede agli scrittori qual è il motivo che li ha spinti a cominciare a scrivere. Io invece vorrei sapere qual è il motivo che spinge a continuare.
P.: Posso risponderti per quanto mi riguarda… La voglia di migliorare. Il piacere di raccontare una bella storia, e il desiderio di farlo ogni volta meglio, di trovare echi e sponde emozionali nei lettori ogni volta più forti e vividi. Di trovare parole più belle, psicologie più interessanti, intrecci più emozionanti e organici. Migliorare, migliorare, migliorare… Qualora dovessi rendermi conto di non riuscirci più, non avrei nessun problema a smettere. Ma fino a quel giorno, darò tutto me stesso per affinare le mie storie e la mia scrittura.
Presentazione a cura di Cecilia Lavopa, in collaborazione con Federica Politi