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Deborah Brizzi firma il suo secondo romanzo, dopo Ancora Notte, uscito nel 2014, con la protagonista Norma Gigli, viceispettrice (in questo nuovo romanzo) della Squadra Mobile. Pubblicato da Mondadori Electa, il romanzo si intitola La stanza chiusa e argomenti centrali del romanzo, dei quali la Brizzi ci parla da un osservatorio privilegiato essendo lei stessa una poliziotta, sono la discriminazione e la violenza di genere.
L’abbiamo intervistata e queste le risposte che ci ha dato.
1. Buongiorno Deborah, è un piacere averti su Contorni di noir. La prima domanda è d’obbligo: cosa ti ha spinto a voler mettere nero su banco storie che rappresentano, immagino, il pane quotidiano con il quale hai a che fare per il tuo lavoro?
D.: In realtà per me le storie sono solo recinti, dentro i quali inserisco pensieri e riflessioni che mi pare valga la pena condividere. Non racconto di cose che mi sono accadute nella realtà, al limite prendo spunto dalla realtà per tracciare dei contorni. È un po’ come un puzzle, una volta che fai la cornice hai più tempo e agio per pensare a come riempirla.
2. Per i tuoi romanzi ti sei ispirata in qualche modo ad eventi realmente accaduti o sono unicamente frutto della tua fantasia e conoscenza dell’animo umano e della realtà criminale della città di Milano?
D.: Nel primo libro, Ancora Notte, per alcune storie (come quella di Margherita) mi sono ispirata ad interventi che avevo fatto realmente durante gli anni passati in volante. Raccontarli è stato un po’ come dare giustizia a quelle persone, perché poi li ho fatti finire come avrei voluto finissero, non come sono finiti nella realtà. Il secondo libro, invece, è un po’ più complesso: avevo bisogno di scrivere per vendicarmi di un episodio della mia vita di cui non riuscivo a liberarmi, farlo raccontare a uno dei miei personaggi è stato catartico. Così è diventato un romanzo di vendetta corale, perché tutte le persone a cui parlavo del mio progetto mi raccontavano spontaneamente di cosa avrebbero voluto vendicarsi. Alcune di quelle storie fanno parte adesso di “La Stanza chiusa”, il titolo vuole dire che tra me e loro è stato siglato un patto di segretezza, che tutto quello che ci siamo dette rimarrà in una stanza chiusa.
3. Nei tuoi romanzi vi sono due protagoniste particolari e ricorrenti: le donne e Milano. Essendo io stessa donna e milanese, questo binomio mi interessa particolarmente, ci vuoi parlare di questa scelta letteraria?
D.: Milano è la mia città. Io la amo, con tutte le sue contraddizioni ma anche con tutta la sua grandezza e la sua generosità. Parlare di Milano è renderle omaggio. In fondo è più semplice scrivere di ciò che si conosce, se parlassi di un viaggio su una nave da crociera non sarei così realistica, non ci sono mai stata. Conoscere le cose di cui parli ti permette di descrivere sfumature che fanno avvicinare realisticamente anche le persone che non hanno esperienza di ciò di cui parli. La stessa cosa vale per le donne. Sono una donna, parlo di ciò che conosco e amo.
4. Norma Gigli, la protagonista di entrambi i tuoi romanzi, come te è milanese e poliziotta. Quali sono i punti in comune e le differenze tra voi due, se ce ne sono?
D.: Norma nasce come il mio alter ego, poi ha preso la sua strada ed è andata per i fatti suoi. Lei è molto più amara e amareggiata di me, non crede nella psicologia, io invece sì. Anzi, credo che una maggiore consapevolezza del sé e di ciò che ci ha portato a diventare ciò che siamo migliorerebbe il mondo in maniera esponenziale. Talvolta è più semplice attribuire le nostre disfunzioni a inclinazioni caratteriali, se andassimo in fondo alla questione ci renderemmo conto che il carattere, nelle nostre reazioni, c’entra in modo infinitesimale rispetto a ciò che gli attribuiamo.
5. Come hanno accolto i tuoi romanzi i colleghi della polizia di Milano? Hai avuto suggerimenti, elogi o critiche?
D.: Ho avuto un enorme sostegno dai miei colleghi. Ho lavorato dodici anni nella sezione di polizia giudiziaria del tribunale di Milano, poi ho vinto il concorso da ispettore e mi hanno trasferita ma… Dodici anni sono tanti, io lì ho una famiglia, non dei colleghi, una famiglia che mi ha sostenuto dal primo all’ultimo giorno, dall’ultimo della scala gerarchica ai miei dirigenti. Devo ringraziarli tutti.
Per quanto riguarda le critiche… Non saprei, il mondo è vario, piacere a tutti non sarebbe neanche tanto divertente. Ciò che posso dire è che quelli che hanno letto i miei libri ne sono stati felici ma, come ho appena detto, ho lavorato in famiglia, e ogni scarrafone è bell’a mamma soja…
6. Parliamo del tuo ultimo romanzo, “La stanza chiusa”. Qual è stata l’idea?
D.: La vendetta. Come anticipavo prima, l’idea del secondo romanzo è nata da un episodio di violenza subita, dopo un lungo percorso ho scelto di non affrontarlo personalmente, avrebbe procurato più male che sollievo, così ho scelto di raccontarlo scrivendo. Ho scelto di ristabilire la mia verità, così da offrire una possibilità di riscatto alla controparte. Alla mia vendetta se ne sono aggiunte molte altre, alcune di queste, appunto, sono diventate delle storie, dei personaggi. Per esempio quella dell’ex fidanzato di Giuliana è una storia vera, gioielli e rose lasciati da pagare compresi…
7. Il tema che emerge in modo dirompente è la discriminazione e la violenza di genere, tema molto attuale. Se è vero che le donne del romanzo hanno subito abusi e soprusi da parte di uomini, non sono sempre rappresentate come vittime, penso alla madre del killer e in qualche modo a Edda Vargas. C’è un messaggio preciso in questa, a mio avviso realistica, visione?
D.: Il messaggio più forte è che la vendetta genera vendetta, come la violenza genera violenza. La madre di Antonio ne è un esempio, lei subisce violenza dal marito e si sfoga sul figlio, alla fine l’anello più debole della catena è quello che paga per tutti e la madre di Antonio me la citano in tanti, ma tutti tralasciano di osservare che Antonio aveva anche un padre. Un padre di cui si parla nel libro, ma del quale nessuno si accorge. Un padre che tratta malissimo sua moglie, la umilia, la insulta quotidianamente. Sperpera tutto il suo denaro, commette reati ed è costretto a scappare dalla finestra. Allora la domanda che faccio è questa: di quanto sessismo interiorizzato soffriamo, se neanche le donne che leggono il mio libro sono in grado di spartire adeguatamente le responsabilità? È davvero la madre di Antonio l’unica responsabile della sua follia, oppure la responsabilità è da dividere esattamente a metà? Perché quando si parla di cattiva educazione diamo per scontato che i padri non c’entrino nulla? Che la loro non presenza non sia altrettanto dannosa rispetto alla cattiva presenza di alcune madri?
Perché inizia a sembrarmi molto comoda la posizione dell’astante. Il padre non c’era e quindi è tutta colpa della madre… Forse questo dovrebbe diventare uno spunto di riflessione profonda per la genitorialità sana e il modo in cui le famiglie vengono costruite e vissute.
8. Visti i temi trattati nel tuo romanzo, come dicevo la violenza di genere, e la follia criminale ci si potrebbe aspettare una lettura angosciante. Al contrario il romanzo ha uno stile semplice e diretto, una scrittura che ho trovato piacevole e spesso francamente divertente. Anche le scene più violente, drammatiche o con un linguaggio colorito, di cui il libro è pregno, sono descritte con una sorta di irriverente leggerezza che ho decisamente apprezzato. Volevi in qualche modo sdrammatizzare e alleggerire gli eventi?
D.: Il mio senso dell’umorismo è la base della mia resilienza, e mi ha salvato la vita. Come amo dire, non è che a essere sempre tristi la vita diventi più allegra… E certo, ridere sulle cose orribili non le rende meno orribili, ma forse più sopportabili sì. Ridere dà forza.
9. “La stanza chiusa” si presta egregiamente, a mio avviso, ad una trasposizione cinematografica. È un’ipotesi realistica e concreta? Idealmente, chi vorresti alla regia e come interpreti dei protagonisti principali?
D.: Caspita… Che domanda interessante. Se la produzione fosse italiana alla regia mi piacerebbe avere Alice Rohrwacher, i suoi racconti sono incasellati in atmosfere rarefatte e si adatterebbero perfettamente a quelle del noir; se invece fosse estera adorerei vedere i miei libri raccontati da Sofia Coppola o da Marleen Gorris. Gli attori e le attrici li lascerei scegliere a loro, ma se Nita la interpretasse Eva Green, beh, mi piacerebbe fare Norma Gigli…
10. Hai già in cantiere il prossimo romanzo? Ritroveremo ancora Milano e Norma Gigli, le fortunate protagoniste dei due romanzi da te scritti finora o pensi di cambiare drasticamente?
D.: Ho iniziato a scrivere il terzo romanzo, il titolo provvisorio è “Sangue di Giuda”. Ci sarà Norma, anche se non so se sopravvivrà fino alla fine. Ci sarà Milano, ci saranno balzi temporali di quasi mille anni, movimenti ereticali, sette e gerarchie ecclesiastiche diaboliche. Ma devo trovare il tempo per documentarmi. È un progetto molto ambizioso…
Intervista a cura di Barbara Gambarini