Intervista a Gianluca Morozzi

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(c) Donata Cucchi su Il Libraio

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Gianluca Morozzi è nato nel 1971 a Bologna, dove vive. Musicista, conduttore radiofonico, tiene corsi di scrittura creativa ed è direttore editoriale di Fernandel. Autore di saggi, racconti, graphic novel. Ha appena pubblicato il suo romanzo “Gli Annientatori” per TEA Editore e noi lo abbiamo intervistato per chiedergli qualche curiosità.

1. Benvenuto, Gianluca. Raccontaci qualcosa di te e del tuo background.
G.: Sono uno splendido quarantasettenne bolognese, Moretti permettendo. Uno che un giorno, da adolescente, nella spiaggia di Igea Marina, ha letto La lunga marcia di Richard Bachman (ovvero Stephen King) e l’autobiografia di Isaac Asimov, e ha deciso di iniziare a scrivere racconti senza smettere più. Il mio primo romanzo, Despero, è uscito il 12 settembre 2001, giorno splendido per farsi notare dai media. Qualche anno dopo ho chiuso tre persone in un ascensore di Bologna, che in un film di produzione americana è diventato un ascensore di Miami, e una delle tre persone, nell’ascensore di Miami, era Ditocorto di Game of Thrones. Mi piace alternare romanzi truci e tenebrosi a cose più leggere e divertenti. Del resto il mio modello è Andrea Pazienza, che di questo tipo di alternanza era un maestro. Sono anche single, per cui, ragazze, fatevi sotto senza remore.

2. E’ uscito il romanzo “Gli annientatori” per TEA. Com’è nata l’idea?
G.: Qualche anno fa, con la mia ex ragazza, ho affittato una graziosa mansarda in una palazzina che sembrava la nostra collocazione ideale. Poi ho scoperto che cinque dei sei appartamenti, cioè, tutti tranne il nostro, appartenevano a un’unica famiglia. Famiglia, peraltro, un po’ rumorosa e non molto permeabile alle nostre garbate proteste. Estremizzando il concetto, è nata l’inquietante famiglia Malavolta. Che doveva chiamarsi Malacappa, in realtà, ma ogni volta, in modo bizzarro, continuavo a scrivere il cognome in modo sbagliato. Alla fine mi sono arreso: l’hanno deciso loro, come volevano chiamarsi.

3. Hai utilizzato un appellativo un po’ particolare a… non sappiamo a chi o cosa (a meno di non aver letto il libro), ma gli Annientatori vengono nominati molto presto. Ci spieghi la scelta di questo titolo?
G.: Ci sono titoli che nascono insieme all’idea iniziale del romanzo, prima ancora di aver scritto una riga, titoli come Blackout, o Radiomorte, o Lo specchio nero. E altri che, come questo, ti compaiono in mente alle quattro del mattino, mentre stai uscendo dalla tangenziale di Bologna. E ti suonano così perfetti che ti chiedi come mai non ti siano venuti in mente prima.

4. Già nelle prime righe ci fai capire che qualcosa di terribile accadrà al protagonista alla fine della storia, e continui a ripetercelo. Qual è il motivo di questo modus operandi, a mio avviso molto azzeccato?
G.: Il trucco di iniziare dalla fine, come nel film Irreversible, come nel celebre La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, quando la fine è dichiaratamente tragica, getta un’ombra sinistra su tutti gli accadimenti successivi: qualunque cosa in apparenza positiva capiti al personaggio, sai già che finirà nella misteriosa foresta in cui si ritrova a pagina 1, a cercare una piramide, terrorizzato dagli Annientatori. O, in un’altra ottica, ogni cosa non propriamente condivisibile che fa, come sappiamo, lo condurrà a un’inumana punizione.

5. Giulio Maspero, il tuo protagonista, non è esattamente un personaggio simpatico, soprattutto a causa del suo atteggiamento con la fidanzata. Perché hai scelto di costruirlo così?
G.: Perché per me Giulio è il classico scorpione sulla rana della favola, non può ribellarsi alla propria natura. L’ho costruito come Hank Moody di Californication, ma un Hank Moody che non ce l’ha fatta, non ha avuto un clamoroso successo letterario e le gratificazioni economiche conseguenti. Ma anche Hank Moody (come pure il Kennedy Marr di Maschio bianco etero di John Niven), pur avendo un immenso calderone di sentimenti affatto sopiti, è schiavo totale del suo istinto seduttivo.

6. Quanti tra i luoghi, quasi tutti “strani” e onirici, che descrivi nel romanzo sono strettamente ispirati alla vera Bologna, magari cambiando i nomi, e quanti e quali sono completamente di fantasia?
G.: Via del Gorgo non esiste, ma tutte quelle stradine strette, misteriose, schiacciate tra il fiume e il Pontelungo ci sono eccome. Sono una specie di piccolo borghetto a parte. Qualche locale come il Mosaico è ispirato a un paio di posti in pieno centro, che abbinano quello che in una canzone dello Stato Sociale viene chiamato “barismo cordiale” a pretese artistiche, con mostre di foto o di disegni in mezzo al tintinnare di bicchieri. Tutto il resto, dal pub Old Bridge al cinema in piazza Maggiore, esiste.

7. Tra le varie attività che svolgi, leggo anche che sei chitarrista, conduttore radiofonico e insegnante di scrittura creativa. Da dove nasce l’esigenza di usare metodi diversi per comunicare, oltre alla scrittura?
G.: Dal fatto che la scrittura soddisfa il novanta per cento delle mie esigenze di espressione, ma il novanta per cento non è il cento per cento. E allora, strimpellare malissimo canzoni di Bob Dylan sui palchi che con molta pietà mi vengono concessi o blaterare il mercoledì mattina a Radio Fujiko insieme al cantante degli Avvoltoi mi concede di completare il quadro. Insegnare scrittura, invece, oltre a essere un secondo lavoro dopo quello di romanziere, mi fa conoscere persone nuove, mi fa capire meglio quel che faccio spiegandolo, e mi dà la soddisfazione di vedere qualche allievo pubblicare, magari con successo. Sono un padre orgoglioso, in questo caso.

Elena Mearini e Gianluca Morozzi a TdL18

8. Una delle tue caratteristiche della scrittura è creare atmosfere angoscianti, opprimenti. Ci spieghi da dove nascono?
G.: Ah, saperlo. Questa parte di me che inquieta molto le mie fidanzate viene da qualche tenebrosa regione della mia mente, che è meglio non andare a esplorare troppo. Forse è la pozza di cui parla Stephen King nel suo La storia di Lisey, in cui tutti noi scrittori andiamo a pescare. O forse la rilettura di Hellblazer o Swamp Thing.

9. Secondo te, a che genere letterario si può ascrivere questo romanzo? Ci sono senza dubbio il noir, il thriller, ma anche un bel po’ di humour (soprattutto in certi personaggi). Se si ignorano le “parti in corsivo” (come se fosse possibile), anche uno stile da “storia di una persona qualunque”… e poi?
G.: Difficile catalogare il genere di questo romanzo. Un horror realistico, forse. Avevo in mente certi film orrorifici bizzarri, come Tusk di Kevin Smith o Human Centipede (non a caso citati), mischiati a un’atmosfera del tipo La casa dalle finestre che ridono. Qualche anno fa, ai tempi di Cicatrici e Chi non muore, avevo provato, un po’ scherzando, a definirli progressive-noir, l’altro lato del post-noir. Dovrò inventare un nome originale anche per Gli annientatori.

10. Un gioco che ogni tanto facciamo con qualche scrittore, è associare una musica o una canzone al romanzo. In questo caso, quale sceglieresti?
G.: “La casa” di Sergio Endrigo, ma cantata come una ninna nanna inquietante, lenta e senza musica, da un gruppo di bambini fantasma. O i primi dischi dei Black Heart Procession.

11. Ci anticipi qualcosa dei tuoi prossimi lavori?
I.: Sto scrivendo il romanzo dell’anno prossimo (Tea volendo), “Dracula ed io”. Torneranno i personaggi dell’appena ristampato L’era del porco… e Dracula. Senza che ci sia nulla di strano nel farli interagire. Poi ci sarebbero mille altre cose, ma facciamone una alla volta.

Intervista a cura di Marco A. Piva