Intervista a Jonathan Lethem

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(c) Cecilia Lavopa

Jonathan Lethem è autore di romanzi, saggi, racconti; ha vinto la MacArthur Fellowship e il National Book Critics Circle Award per la narrativa. Collabora, fra gli altri, con “The New Yorker”, “Harper’s”, “Rolling Stone”, “Esquire” e il “New York Times”. Tra i suoi romanzi pubblicati in Italia: Brooklyn senza madre (1999), La fortezza della solitudine (2003), Concerto per archi e canguro (1994), Il giardino dei dissidenti (2014). Classe ’64 e Premio Raymond Chandler 2019, Lethem è stato definito dal sole 24ore uno tra i più produttivi scrittori della nuova generazione ebraico-americana. Per la traduzione di Andrea Silvestri, il recente romanzo pubblicato con La nave di Teseo si intitola Il detective selvaggio, e in occasione della presenza dell’autore a Noir in Festival 2019 lo abbiamo incontrato.

1. Benvenuto e grazie. Domanda di rito: Come ha avuto l’idea per questo romanzo?
J.: Ho sempre avuto questa idea del ragazzo selvaggio di cui la letteratura è piena: da Tarzan, a Mowgli, al ragazzo selvaggio di Truffaut, Kaspar Hauser di Herzog. Quindi ho pensato: “E se il detective protagonista di questa storia fosse stato anche lui un ragazzo selvaggio?”

2. La trama si basa su una forte dicotomia: due scuole di pensiero, due stili di vita, due tribù. Sarebbe davvero possibile analizzare il nostro mondo, la nostra Terra, basandosi su una divisione in soli due gruppi?
J.: Sì, questo mi permette di avere uno spazio allegorico, un po’ come succede nelle storie per bambini. Qui ci sono dei gruppi di persone molto semplici che decidono di identificarsi con degli animali, come possiamo aver visto nelle favole di Esopo o anche in Alice nel paese delle meraviglie. Mi è venuto in mente un racconto che leggevo ai miei figli quando erano piccoli, di Philip Pullman, The Golden Compass, in cui ci sono dei gruppi di orsi che sono in lotta fra loro e devono scegliere il loro re. Quest’idea l’ho trasposta nel libro per descrivere questo mondo disastrato in cui viviamo, un modo per sottolineare la situazione in cui si trovano adesso i rapporti umani.

3. Il numero due torna prepotente in quello che è il rapporto tra le protagoniste: Arabelle e Phoebe, che giocano con i personaggi e con il lettore, diventando interscambiabili. Due personaggi femminili importanti e forti all’interno di questa opera, dove spesso le donne vengono descritte con caratteristiche di saggezza e potere. Come vede nel nostro mondo il ruolo della donna, ora, negli anni 2000?
J.: Quello che ho descritto in questo libro avveniva poco prima che dilagasse il movimento #Metoo, che era un modo per le donne di affermare la propria rabbia, di dire che il mondo così com’era non era accettabile ed era qualcosa di nuovo, la libertà di essere arrabbiate, come se fosse caduta finalmente la maschera. La protagonista femminile non ha una risposta alla situazione attuale, ma sa che qualcosa deve cambiare. Ed è per questo che se ne va da New York.

4. Heist è un uomo lontano dalle regole, bizzarro, eppure un uomo onesto davanti a se stesso, ligio nelle sue missioni. Devo ammettere che ho faticato ad entrare in sintonia con lui come se il suo mancare di norme desse a me la sensazione di camminare nel vuoto, eppure si arriva al termine del volume ringraziando questo personaggio per il viaggio intrapreso.
J.: Penso che Heist sia un uomo enigmatico, ed è per questo che risulta un puzzle per il lettore e per Phoebe, qualcuno che fa sempre un passo laterale, sia nella vita quotidiana che in quelle bizzarre comunità che vivono nel deserto. Come se si nascondesse sempre e pensasse che non c’è qualcosa che valga la pena di fare, tranne salvare qualcuno ogni tanto, ma non se stesso. Perché lui non ha delle risposte al problema.

5. Tramite Phoebe, non mancano forti critiche a Trump, al suo governo e al suo elettorato. Ho notato che per molti la sua vittoria ha rappresentato un punto di svolta, un prima e un dopo Trump, e forse per molti scrittori questo si è notato ancora di più nelle loro opere. Come mai la figura di questo uomo riesce a entrare così profondamente anche nelle opere letterarie di chi non lo stima certamente?
J.: La reazione di Phoebe a Trump è una tipica reazione liberal, la libertà di essere furiosi e scandalizzati. Volevo proprio parlarne, farla vedere, però non si tratta di una risposta originale, è abbastanza diffusa. Ma il problema va più in profondità e non riguarda solo gli Stati Uniti, riguarda anche il capitalismo e i rapporti tra uomo e donna. Quindi non è Trump che ha dato origine a questo, ma lo ha rivelato.

6. Lo stile di questo romanzo ricorda il filone dei più classici romanzi americani: le lunghe strade da percorrere che sono diventate sogno di noi in Europa, i paesaggi magnifici dall’alba al tramonto e i personaggi che si incontrano lungo la via, come se il romanzo fosse un viaggio nel viaggio. Quando di ciò che lei ha letto, ha formato il suo io scrittore?
J.: Sì, mi sono sempre occupato di questo archetipo americano della frontiera. Anche questa è una storia di frontiera, è come se fosse un western, una fantasia nella quale questo mito così profondamente radicato nella mentalità americana vada alla ricerca di un’altra frontiera, di un oltre. Come fosse una nuova pagina bianca da riempire, che in questo caso è il deserto. Ma in questo spazio vuoto alla fine ci troviamo sul bordo della vita, all’estremo. Quindi che cosa succede?

7. Lei racconta di aver subito l’influenza profonda di Philip K. Dick, al quale si è ispirato per scrivere i primi due romanzi Concerto per archi e canguro (finalista al Premio Nebula per il miglior romanzo nel 1994) e Amnesia Moon. Per quali caratteristiche vorrebbe influenzare qualche autore esordiente che legge i suoi romanzi?
J.: Bella domanda! Io penso di far parte della prima generazione di scrittori americani che si sono sentiti liberi dai limiti di un genere. Ormai tutto può far parte della letteratura, anche la cultura pop, il cinema, i fumetti, la letteratura pulp. Quindi io mi posso considerare un fortunato recettore di questo, sono contento di poter essere forse il primo a voler rappresentare questo esempio.

8. Nella sua lunga carriera di scrittore, si è mai posto dei limiti sugli argomenti che voleva affrontare? E come li ha risolti?
J.: Penso ci si scontri continuamente con i propri limiti, con proprie ansie e le proprie paure. E’ proprio quando ci si accorge di arrivare al limite, è in quel momento che parte l’azione, sorgono nuove possibilità. E quando scopro i miei limiti che sento come un’urgenza e mi chiedo perché ne ho paura, cos’altro potrei scoprire?
Tutto questo magari non sboccia in quello che sto scrivendo in quel momento, ma diventa una promessa per qualcosa che avverrà.

Intervista di Cecilia Lavopa a cura di Adriana Pasetto