Sono esattamente tre anni che Alan D. Altieri, pseudonimo di Sergio Altieri, è scomparso. Nato a Milano nel 1952, muore improvvisamente nella stessa città il 16 giugno 2017, lasciando sgomenti tutti i suoi amici, tutti i suoi lettori.
È stato scrittore, traduttore e sceneggiatore italiano. Ha vissuto tra l’America e l’Italia, riuscendo a mantenere i piedi ben saldi nel nostro territorio. Condensare la sua biografia è un’impresa, ma ci proviamo: ha conseguito la laurea in ingegneria meccanica, il suo primo romanzo ha visto la luce nel 1981. Si intitola Città oscura, un thriller d’azione di ambientazione metropolitana, a cui farà seguito Città di ombre (prima edizione 1990). Collabora con Dino De Laurentiis, lavora con varie mansioni (story editor, ecc.) ai film Atto di forza, Conan il distruttore, L’anno del dragone e Velluto blu.
È stato traduttore, tra le altre cose, della saga bestseller di George R. R. Martin Cronache del ghiaccio e del fuoco. Per i Meridiani Mondadori ha tradotto i racconti di Raymond Chandler e i romanzi di Dashiell Hammett. Ha successivamente curato e tradotto per Feltrinelli un’antologia di racconti di H.P. Lovecraft.
Vi sveliamo una chicca: i dialoghi di Sergio della sua traduzione de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sono stati usati per la versione italiana della serie Il trono di Spade.
Ho avuto anch’io l’onore di conoscerlo e di presentarlo a BookCity in occasione dell’uscita del suo romanzo Juggernaut, pubblicato da TEA proprio nel 2017. Mi sono subito resa conto di quante persone gli hanno voluto bene e in questo blog, grazie a un’idea del duo di scrittori Andrea Novelli e Gianpaolo Zarini e mia, vogliamo dare voce ad alcune di queste per farci raccontare il loro primo incontro con Alan D. Altieri. Perché, prima di farvi conoscere i suoi libri, vi vogliamo far conoscere l’Uomo.
NOVELLI & ZARINI
Abbiamo avuto la fortuna di conoscere Sergio Altieri molti anni fa, durante l’edizione 2002 del Courmayeur Noir in Festival. Presentava un giovane autore straniero. La sala era gremita, il tavolo delle conferenze sovrastava la platea, ma era la sua figura a spiccare, un colosso a un simposio.
Al termine ci siamo fatti avanti con un approccio inusuale. “Buongiorno, ingegner Altieri” esordimmo all’unisono. Ci guardò in modo strano, ma la cosa lo divertì. Tese la mano. Fu una stretta forte, di chi sa essere severo, ma soprattutto giusto e pronto all’altruismo.
Quella stretta fu una sorta di sigillo a un’amicizia duratura, fatta anche di tante collaborazioni. Nell’espressione, nei tratti, nella stazza c’erano sparsi i suoi personaggi, nessuno escluso. Lui era la fonte, la matrice. Il volto era meditativo e profetico. Concentrandoci sullo sguardo, capimmo subito di essere alla presenza di un grand’uomo, di quelli rari a trovarsi.
Lo sguardo, duro al primo strato, celava in realtà una trasparenza rara, genuina, senza compromessi e tanta umiltà, sebbene possedesse mente e intelligenza fuori dal comune. La voce profonda, un tuono nel vento, mascherava una sensibilità tangibile. Lo si avvertiva dalle parole, dal peso e dal valore che Sergio dava ad esse.
È difficile ancora oggi spiegare che cosa abbia significato quel primo incontro. Avvertimmo da subito che era stato qualcosa di speciale e quel qualcosa, lo aveva portato lui, Sergio Altieri. Avevamo incontrato una persona vera fino al midollo, fino alle ossa. Di quelle che danno un valore assoluto all’amicizia, di quelle con cui intraprendere il viaggio senza nemmeno chiedere dove porterà.
Semper Fidelis, man.
ELENA E MICHELA MARTIGNONI
Conoscemmo Sergio all’Osteria del treno, alla cena di Natale del gruppo Gems, chissà di che anno, ma di certo uno di quelli felici per l’editoria, visto che ancora si festeggiava tra autori, giornalisti ed editori.
Lui arrivò a festa già iniziata, forando la notte della città oscura. Maglietta nera giro collo anche in pieno inverno e sorriso aperto. Sedette al nostro tavolo, invitato da Cecilia Perucci, direttrice editoriale di Corbaccio. Cecilia ci presentò e iniziammo a parlare con Sergio di storia e corruzione, argomenti che ci accumunavano, essendo reduci da impegnative trilogie storiche: lui da Magdeburg e noi dai Borgia.
Fu amicizia a prima vista, che divenne poi sincera e duratura. Nel frastuono del complesso jazz, le chiacchiere, i brindisi non era facile conversare, ma lo facemmo a lungo. Accettò subito di farci da moderatore in un’imminente presentazione. Lui diceva quasi sempre di sì perché era una persona straordinariamente generosa. Spesso lui usava questo avverbio, e anche l’aggettivo straordinario era sempre presente nei suoi discorsi.
Perché era un grande e pensava sempre in grande, sempre in modo fuori dall’ordinario, appunto.
Sergio era amareggiato, eppure si entusiasmava. Sergio era disilluso, eppure ci credeva.
Pensare a lui scatena un fiume di ricordi, nostalgie, risate ma anche incazzature e delusioni condivise.
I suoi libri gli assomigliavano? Sì. Certo. È lui il viandante nero di Magdeburg, è lui l’eroe positivo e scontento, disperato ma lottatore. È lui che senza paura cavalca nel buio tra vento e corvi neri, cercando giustizia in un mondo dove sa che non la troverà mai.
RAUL MONTANARI
Ho conosciuto Sergio Altieri il 9 maggio del 2006, a un convegno nell’università Cattolica di Milano. Siamo diventati amici nel senso profondo della parola, ossia ci scambiavamo confidenze intime oltre a fare il tifo l’uno per l’altro nelle battaglie della vita; non nel senso estensivo, perché non ci siamo mai frequentati molto.
Ho conosciuto pochi uomini gentili, generosi e onesti come lui.
Sergio era la conferma vivente di una mia teoria basata su trentacinque anni di frequentazione del mondo letterario: spesso le persone che, come lui, scrivono cose terribili sono deliziose; mentre gli autori di storie mielose, concilianti, consolatorie si rivelano delle autentiche carogne. Penso che si tratti di una forma di compensazione: gli scrittori del primo tipo sfogano il lato oscuro nelle pagine dei loro libri, con una rappresentazione onesta e dura del mondo; i secondi falsificano la realtà mostrandocela migliore di quanto non sia, ma per fare questo sono costretti a tenersi dentro l’odio, l’ira, l’orrore, che finiscono per uscir fuori da un’altra parte.
Per usare una parola vecchia: Sergio era un uomo molto buono. Felice come un bambino quando poteva dare una bella notizia, si struggeva nell’imbarazzo e addirittura balbettava quando gli toccava dire qualcosa che avrebbe fatto soffrire il suo interlocutore. Era intelligentissimo, ma di un’intelligenza sottile, mai esibita.
Un gran signore, un gentiluomo tale e quale il suo amico Andrea Pinketts, che adesso ci sorride insieme a lui da un posto dove stanno meglio di noi.
LUCA CROVI
Compagni di visioni
Mio padre e Sergio Altieri si incontrarono per la prima volta nella sede del gruppo Bompiani, Sonzogno, Fabbri, Etas Libri. Lui era al primo romanzo e mio padre stava per decidere di sospendere per un po’ la sua attività di direttore editoriale, suggerì ad Altieri di portare il romanzo a Dall’Oglio che subito lo mise in catalogo e scommise su di lui. Sergio mi ha raccontato questa storia in macchina, sorridendo. La parola amicizia per Sergio ha sempre avuto un significato e una forza speciale. Abbiamo iniziato a frequentarci alla Sherlockiana di Tecla Dozio e al Trottoir dove ci portava un altro amico, Andrea G. Pinketts. Luoghi di aggregazione che hanno fatto crescere insieme la Scuola dei Duri milanese.
Quando Sergione decise di costruire la squadra speciale di “Anime nere” fu lui a chiedermi di sfogare tutta la rabbia dei milanesi nei confronti degli ausiliari della sosta con “Zona Fiera”. E io mi sono divertito a coinvolgerlo nel progetto salgariano “Cuore di Tigre”. Sergio sapeva ascoltare gli autori e suggerire loro come portare a termine i loro progetti.
Amava la letteratura e il cinema e amava soprattutto il genere. Scrivere nel genere e contaminarlo è stato un modo di vivere la letteratura che ha condiviso con gli amici. Quando mi confessò che aveva creato il suo stile ispirandosi alle poesie scritte in tempo di guerra da Clemente Rebora ho capito molte cose suoi romanzi e il loro ritmo. Insieme abbiamo cullato l’idea che scrivesse un romanzo ambientato durante la Seconda Guerra basato su ricordi della resistenza legati alla sua famiglia. Ne abbiamo parlato per ore divertendoci ad immaginarlo. Sergio è sempre stato un meraviglioso compagno di visioni.
GIOVANNI DE MATTEO
Le voci del Lupo
La prima volta che ho sentito la voce di Sergio Altieri è stata per telefono. Era un pomeriggio romano di giugno, anno 2007. Un numero sconosciuto, una voce tonante che irrompe dall’altro capo della linea per presentarsi come l’editor delle collane da edicola Mondadori e annunciarmi che con il romanzo Post Mortem avevo vinto il Premio Urania. Una di quelle telefonate che ti cambiano la vita.
Sergio non poteva saperlo, ma io e lui ci conoscevamo da tempo.
Non solo perché lo avevo intervistato, sotto pseudonimo, pochi anni prima per il mio blog di allora. Fin dal primo racconto che avevo letto, lo straordinario La sindrome di Wolverton ospitato sulle pagine di Robot, lo avevo eletto tra i miei modelli e ne avevo divorato i romanzi. La lettura del primo volume della trilogia di Magdeburg, L’Eretico, mi aveva mesmerizzato.
Nel corso della nostra frequentazione succedutasi a quella telefonata, e scandita da innumerevoli altre, da presentazioni e incontri in giro per l’Italia, ho avuto la fortuna di conoscerlo meglio, ammirandolo anche per la sua inesauribile dedizione agli altri: se nei suoi libri Sergio “Alan D.” Altieri metteva a fuoco la distruzione del mondo, nella vita reale era animato da un altrettanto infaticabile spirito da aggregatore e costruttore di comunità.
Conteneva moltitudini: tutte le voci dei suoi protagonisti vibravano in lui, ma nessuna di loro poteva trasmettere la totalità del loro artefice. Nella sua immensità, per quanto ben delineato, ogni singolo personaggio resta un’eco del suo creatore, ma continuando ad ascoltarlo è impossibile non riconoscere l’inconfondibile timbro di Alan D., un maestro, un amico e una leggenda.
FRANCO FORTE
Un amico e un fratello
Custodisco nel cuore Sergio “Alan D.” Altieri, un amico, un fratello, un maestro di scrittura e di vita. Una delle persone più generose che io abbia mai conosciuto.
Lo conobbi grazie a mio padre. Nel 1982 mi porse un libro dicendo: “Vuoi fare lo scrittore? Impara il mestiere dagli americani.” Si trattava di “Città oscura” di Alan D. Altieri.
Sergio in qualche modo l’aveva fregato, facendogli credere di essere americano. D’altra parte, lui è sempre stato un autore molto anglosassone: nella sostanza, nella tecnica, nel modo di prenderti per i capelli e trascinarti in una storia. Divorai “Città oscura” e cercai di saperne di più sul suo autore. Quasi quindici anni dopo l’incontrai di persona e lui divenne il mio maestro di scrittura.
Le nostre carriere si sono incrociate più volte, finché un giorno, nel 2010, mi disse, con una luce di tristezza negli occhi: “Ehi, bro, che ne diresti di sostituirmi alla direzione delle collane Mondadori? Sono stanco”. Quella stanchezza era dovuta all’impossibilità di scardinare la diffidenza dei lettori italiani verso gli autori nazionali. Ci aveva provato con la collana “Epix” (a sinistra l’ultimo numero della Collana, ndr), che avrebbe dovuto approfondire il weird; oppure con “Il Giallo Mondadori presenta”, che avrebbe dovuto lanciare nuovi giallisti italiani. Niente da fare.
Tutto troppo in anticipo sui tempi. Il weird oggi è di moda, all’epoca non se lo filava nessuno. I giallisti italiani ora sono i più venduti, ma quando ci ha provato lui erano mosche bianche.
Dunque in alto i calici e brindiamo a Sergio “Alan D.” Altieri. Che era più avanti di tutti.
GIANLUCA D’AQUINO
Vento.
Duro come silice.
Muto e freddo come il sepolcro.
Desolazione…
Forse tu avresti esordito così, Sergio.
Forse no, ma è il ritratto della tua assenza.
Ripenso con nostalgia a quanto è stato prima di quel giorno da dimenticare, dal primo incontro all’onore di collaborare con il Maestro, fino a quell’appuntamento mancato…
Ti incontrai a una presentazione di Stefano Di Marino, grazie all’invito dell’amico Danilo Arona. Al termine, ti donai il mio primo romanzo; pensai non avresti avuto il tempo di leggerlo. Poi un altro incontro, fugace e surreale, con gli amici Claudia Salvatori e Massimo Caviglione, che troppo presto ti ha raggiunto sul lato oscuro. Quindi la tua chiamata: avevi letto il libro e, con la tua inconfondibile voce, mi proponesti di scrivere un giallo per Mondadori. Wow! Da quel momento mi chiamasti “Bro”, fratello.
Ogni telefonata era occasione per imparare qualcosa. Non solo di letterario…
Tu, “L’amico delle 22” (ora in cui spesso chiamavi), mi insegnasti molto della vita. Tenesti accesa la luce in un periodo buio, mi guidasti lungo cammini difficili. Perché, come dicevi: “Conosco le stanze in cui ti trovi”. Ti devo anche questo.
Mi onorasti della prefazione a un mio romanzo e mi facesti salire a bordo del progetto condotto insieme fino a… fino a che, per continuare, ti ho fatto diventare un personaggio di quella storia.
Alzo lo sguardo e ti vedo. Ka-Boom! I tuoi romanzi occupano il cuore del mio studio.
E maledico quell’ultima telefonata, quell’appuntamento rinviato al “giorno dopo”. Quel giorno che non è mai arrivato…
Ma Old soldiers never die…
Grande abbraccio, Bro.
DARIO TONANI
Primi di luglio 2006. «Ti devo dare due notizie, Man. Una buona e l’altra cattiva, quale vuoi per prima?». Ricevetti quella telefonata in stile vecchio west a casa, dove stavo scontando i postumi di una brutta intossicazione alimentare. All’altro capo della linea, la voce di Sergio Altieri; il periodo quello pre-vacanziero che per tradizione coincide con la proclamazione del vincitore del Premio Urania. «La cattiva» risposi di botto. «Non hai vinto» ribatté con un tono che si ringalluzzì subito. «Adesso quella buona: il tuo romanzo lo pubblico lo stesso. Il capo sono io e decido io…».
Furono queste le mie prime battute con lo straordinario “Sergione” (Alan D.) Altieri, che in qualità di editor delle pubblicazioni da edicola Mondadori mi comunicava che il mio “Infect@” sarebbe uscito su Urania la primavera dell’anno dopo, nel marzo 2007. Passò qualche giorno e c’incontrammo faccia a faccia davanti a una birra in un anonimo bar di via Mecenate a Milano per discutere di come procedere con l’editing. Era fatta, il sogno di una vita, e quel gigante dai modi delicati e l’entusiasmo contagioso me lo aveva consegnato su un piatto d’argento, prima opera non vincitrice a trovare spazio nella storica collana di SF.
Un anno e mezzo dopo, mi ritrovai non con uno, ma con ben due altri contratti Mondadori (il che portava il conto a tre in un paio d’anni; di che leccarsi le dita di entrambe le mani): uno per il seguito d’“Infect@” e l’altro per un secondo Urania, che voleva pubblicare prima. «Una doppietta, tu intanto Bro pensa al primo…».
Del secondo romanzo breve seppi dopo cinque giorni dalla consegna del primo, quella che si dice una lettura da Wolf. Confesso che il concetto di “doppietta” non mi era molto chiaro, sta di fatto che non credevo toccasse a me continuare con un’altra… puntata. «Pensavi di essertela cavata col lavoro» tornò a incalzarmi al telefono. «E invece me ne scrivi un altro della stessa lunghezza. Tranquillo, se è come il primo, nooo problem at all…». Era così “Sergione”, un autentico asso quando si trattava di tirarti fuori le motivazioni giuste, quelle che non ti aspetti dagli altri e neppure sospetti di avere dentro, da qualche parte, pudicamente nascoste anche a te stesso… Grazie di cuore Maestro. Per tutto!
PATRIZIA DEBICKE
Per me Sergio sarà sempre il gigante buono incontrato la prima volta alla Libreria del Giallo. Siamo davanti alla porta con Tecla, uscita a fumare. Lo vedo arrivare, cammina per strada. Saluta, sorride. s’inchina educato, da quel signore che è, quasi come un cavaliere antico.
Poi parla: intelligente, gentile, misurato, ma con il suo irrinunciabile senso dell’ umorismo. La sua voce è profonda. Protesta, si accalora con Tecla. Nel frattempo si accende automaticamente una sigaretta.
Qualcuno gli è arrivato alle spalle? Ah sì, Cappi e Di Marino che lo chiamano. Si volta e ride, scherzano, e ora Sergio ride, forte, davvero… Ma no, non è lui. Non può essere più lui perché tu, Sergio, sei morto. Perché da qualche parte c’era quel nemico che pare invincibile e tu te ne sei andato così, all’improvviso il 16 giugno del 2017. Il 27 maggio alla mia mail : «Ricevuto tuo Magellan con parole magiche. Bacio» avevi risposto: «Hey Pat, grande grazie a TE e grande abbraccio!» I tuoi libri sapevano conquistare. Nel 1997 vincesti lo Scerbanenco con Kondor, una spy story ambientata in Medio Oriente, storia dura. Spiazzante.
Eri un milanese di razza, americano di cuore, sceneggiatore di vaglia. Dopo ti hanno chiamato il Maestro italiano dell’Apocalisse, per forza, si sentiva che venivi dal cinema. Ce l’avevi nel sangue. Ti colava come densa linfa vitale nelle vene, Fuck the world, Sergio. Ci manchi, dannazione, grazie per esserci stato e arrivederci.
DANILO ARONA
Dinamica dei sistemi
Solomon Newton irruppe sulla scena all’alba del 1981, anticipando di qualche mese l’uscita del film 1997 Fuga da New York di John Carpenter. Precocità presaga di un solo libro rispetto a un filone che caratterizzerà di sé tutto il decennio. Parlo di Città oscura che uscì nel marzo di quell’anno. Parlo di Alan D. Altieri. Sergio, Sergione, l’Amico.
Nel 2012 gli posi una domanda. La risposta sembra scritta oggi.
Sergio, che sta accadendo?
La natura umana, soprattutto la paura umana, va alla ricerca della risposta terminale: quanto tempo mi resta? Dal conto alla rovescia individuale, al conto alla rovescia globale, il passo è numerico: quanto tempo CI resta? Nel libro Le invenzioni della notte di Glavinic l’intera narrazione rimane costantemente in bilico tra surreale, iper-reale e onirico.
Nel senso: è davvero vuoto, il mondo, o sono io a sognarlo vuoto? Allargando il campo dalla letteratura alla società, nell’immaginario collettivo, si è fatto strada il nuovo “Apocalypse Clock”. Tutte le ipotesi sono aperte: dall’incombere della “Settima Estinzione” al “e finiamola con queste fregnacce oscurantiste”. Vedremo. La mia personale prospettiva? Facendo riferimento al mio background tecnico – tra sette miliardi di esseri umani sul pianeta e l’agonia delle foreste pluviali, tra la scomparsa dei ghiacciai e il dilagare del petrolio negli oceani, tra il problema dei rifiuti urbani e quello delle scorie radioattive, tra la desertificazione delle fasce tropicali e il raddoppio ogni dieci anni del fabbisogno planetario di potenza elettrica -, beh, forse non è del tutto impossibile che la Dinamica dei Sistemi stia per richiamarci all’ordine. In modo gelidamente sgradevole.
Segue…
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