Peter D’Angelo è un giornalista d’inchiesta, ha lavorato per Report, Presa diretta, Petrolio, oltre che per varie testate, tra cui il Corriere della Sera, la Repubblica, L’Espresso, Il Venerdì e Il Fatto Quotidiano. Ha pubblicato per Rizzoli Rubare l’impossibile.
Fabio Valle è scrittore e documentarista. Ha scritto inchieste per Chiarelettere e diretto documentari per la Rai.
Li abbiamo intervistati in occasione dell’uscita del loro libro, Il figlio peggiore, uscito per Fandango Libri:
1. Ho visto che entrambi siete giornalisti e ricercatori, insomma in qualche modo quel tipo di investigatore de the real thing per dirla con Anne Applebaum. Il figlio peggiore è un romanzo a quattro mani. Quando avete deciso il tema e la trama del vostro romanzo?
Il romanzo nasce dopo tre anni di inchiesta. La testimonianza di un ex-SID (servizio informazioni difesa), ovvero l’intelligence degli anni 70’, raccolta in varie carte processuali, definiva un’operazione segreta dai lineamenti vasti, e sconosciuta nei meccanismi ai più. Nel 2013 ne parlammo per la prima volta. Poi, dopo anni, decidemmo di farne un romanzo, non un saggio, per riuscire a raccontare in modo più ampio possibile un periodo che ha creato un pilastro sociologico nel nostro paese.
2.Avete già lavorato insieme? Come avete diviso il lavoro di scrittura?
Si, vari progetti. Non abbiamo uno schema di riferimento, ci sediamo e si costruisce una forma di disciplina che cambia in base alle necessità. A volte lo sforzo si concentra più sulle spalle di uno, poi dell’altro. Siamo due autori molto diversi, questo in realtà ci aiuta, ci auto-imposta su due registri lavorativi. La scrittura segue le nostre naturali propensioni. Questa formula non è rigida, si scompone e ricompone. E’ una disciplina idraulica, si adatta alle curve del tempo.
3. Parlare con chi ha vissuto quegli anni, la stagione delle stragi o la guerra di mafia, ha di solito una risposta complessiva: erano bei tempi. Così un po’ funziona la memoria umana e si svolge il survival bias. Ci sono scene forti nel libro, ad alto pathos, momenti particolarmente sentiti e forti che preferisco lasciare al lettore-lettrice ritrovare leggendo. Oltre la memoria, scavando un po’, non è difficile incontrare i figli e figlie, vittime successive degli eventi di quegli anni. Avete un qualche “filo” che vi lega alla catastrofe che raccontate?
Noi siamo nati negli anni 80’. Abbiamo vissuto gli anni del reflusso, abbiamo visto le lacerazioni di quelli nati 10-15 anni prima di noi. C’era una voragine, un abisso antropologico. Il buco aveva generato una sindrome fantasma, un contagio invisibile, alcuni anni sono stati popolati da una vitalità sorprendente – come quella degli anni 70’ – poi, spenta dalla tossicodipendenza. Le menti più belle, più sensibili, c’erano finite dentro, come il nostro protagonista, che è ispirato a Carlo Rivolta, giornalista geniale che Scalfari ebbe tra i suoi diamanti a La Repubblica.
4. Da qualche parte, in una sala riunioni, un centro tattico, una sauna, un gruppo di persone, probabilmente uomini, hanno avuto questa idea. Avete consultato archivi e fonti, che impressioni o notizie avete estratto: a chi e come è venuta l’idea? È possibile una qualche eziologia del disastro? Da dove in qualche modo hanno inventato una epidemia sintetica di oppioidi come strumento di controllo sociale.
La strategia dell’implosione dall’interno, dei movimenti politici di opposizione, non era nuova. S’era consolidata dalle Black Panther Party – demoliti da dentro, dalle tossicodipendenze -, poi, va detto che certe inerzie erano presenti e diffuse in quel momento storico, e furono una cinghia di trasmissione perfetta e imponente. Era il tempo delle porte della percezione di Huxley, Kerouac, People have the power, i figli dei fiori, con quella voglia di sperimentare stati superiori di coscienza: ambizione spirituale però collassata in una maceria materiale, risucchiati nell’indolenza della droghe, che da ludiche diventavano letali, senza grandi bussole di comprensione.
5. L’apparato di sicurezza italiano in quegli anni rispondeva a diversi maggiorenti della Democrazia Cristiana. Nel romanzo il commissario Di Matteo e la sua squadra si oppongono come possono. Rappresentano qualcuno nella realtà storica o fu un disastro non mitigato e senza nessuno che vi si fosse opposto nello Stato?
Il commissario Di Matteo è ispirato a un commissario reale, Ennio Di Francesco. Vi consiglio di leggere i suoi libri. Uomo di Stato, uomo onesto, uomo con un’etica forte. Abbiamo parlato con lui. Ecco, per essere brevi: fece il primo arresto a Roma, di un quantitativo di eroina importante. Fu il primo in assoluto. Subito dopo fu spostato.
6. Un’epidemia di oppioidi “legali” negli Stati uniti è in corso e raccontata in documentari e film. L’operazione Blue Moon è, come svolgete nel romanzo, un’operazione di manipolazione narrativa, una information operation (IO) contro una popolazione. Per il “civile” è un complotto e il suo spettro, una cospirazione. Quanto è stata difficile drammatizzarla e quanto sarebbe difficile farlo se qualcosa del genere avvenisse oggi?
I contorni dell’Operazione sono complessi, e nessuno può saperne più di quanto è stato testimoniato da Roberto Cavallaro (ex-SID). Uomo degli apparati, considerato affidabile da due magistrati di altissimo rilievo come Guido Salvini, e Giovanni Tamburino. Nelle carte processuali, che sono anche on-line (ad esempio: Corte D’Assise di Brescia, 2010, ecc), si possono leggere estratti di quella testimonianza che afferma come le droghe siano state usate in questa operazione – attiva in Italia – per fiaccare le opposizioni politiche. Siamo in piena guerra fredda, il PCI raggiungerà il 34% dei consensi alle elezioni del 76’, la strategia della tensione non stava funzionando, si doveva arginare quell’onda in qualche modo. L’Italia aveva una posizione strategica, Tito e la sua Jugoslavia ai confini, era il paese cerniera tra Patto di Varsavia e Nato.
7. Il professor Timothy Snyder rintraccia nell’aumento della distanza tra il cittadino e il giornalista, con il ridimensionamento e la chiusura delle redazione periferiche dei grandi quotidiani come la chiusura dei giornali locali, il motivo della polarizzazione tra gli elettori e la crisi di fiducia nella stampa. Giornalisti sono i protagonisti di Civil War di Alex Garland come di Il Figlio peggiore. I giornalisti, vittime e insieme al centro di quella che sembra una enorme e continua information warfare. Come stanno combattendo per il pubblico, in qualche modo, senza cinismo, per la verità?
Il giornalismo dovrebbe vigilare, ha una funziona pubblica, di verifica capillare, proprio dove le istituzioni fanno più fatica ad arrivare, per vari motivi. Ma, non sempre si riesce, le questioni sono molteplici, e riguardano aspetti legati alla struttura generale della nostra organizzazione sociale. Il giornalismo informa, o dovrebbe informare e basta, in modo neutro, imparziale, e non formare, aggregare consenso. Spesso il confine è semplice da oltrepassare.
Intervista a cura di Antonio Vena