Arrivata a Milano per ricevere il prestigioso Raymond Chandler Award dalle mani dei Direttori di Noir in Festival Marina Fabbri e Giorgio Gosetti e dall’Assessore alla Cultura del Comune di Milano Tommaso Sacchi, evento svoltosi a Milano dal 2 al 7 dicembre, Joyce Carol Oates non sembra subire alcun jet lag nonostante un viaggio impegnativo per la sua età e si presenta anche per parlare del suo nuovo romanzo – il sessantatreesimo – intitolato “Macellaio” (tradotto da Chiara Spaziani), pubblicato da La Nave di Teseo, casa editrice diretta da Elisabetta Sgarbi che sta regalando a noi lettori svariati libri della scrittrice ai quali si fa fatica a starci dietro!
Non si definisce prolifica, la Oates, ma a noi non vengono in mente altri termini per definire un vulcano di storie che è questa donna, sempre attenta alle tematiche familiari e in particolare alla condizioni delle donne, come anche in questo caso. Macellaio è la storia di un viaggio da incubo attraverso le regioni più oscure della psiche umana. Un romanzo perturbante, tratto da una storia vera, su un manicomio femminile e i terribili esperimenti che uno scienziato ha perpetrato impunemente per decenni.
L’abbiamo incontrata per una intervista collettiva e questo è il risultato della nostra chiacchierata:
1.Quale movente l’ha portata a Milano in questi giorni, affrontando un viaggio impegnativo?
Ne ho individuati alcuni: l’amicizia con Antonio Monda che la presenterà questa sera, il prestigio di Noir in festival che mi fa tornare in mente le dionisiache di Atene, quando però allora la rappresentazione del tragico serviva da catarsi. Invece oggi la grande popolarità dell’horror, delle nefandezze nel film, nell’editoria, nella tv, possono essere contagio?
J.C.: Questa domanda presuppone una discussione filosofica, lei parla della tragedia nell’antichità e del dilagare della letteratura crime attualmente. La tragedia aveva dei presupposti religiosi, un sacrificio, due forme d’arte completamente diverse. Se parliamo di letteratura crime, il campo si è allargato tantissimo, interessa molto i lettori e agli scrittori parlarne. Per la prima volta nella storia del ventesimo secolo le donne hanno cominciato a parlare con la propria voce mentre nelle epoche passate sono state tenute ai margini. Dal punto di vista sociale nella tragedia c’era una gerarchia ben precisa, un re e il suo popolo. Invece oggi il crimine riguarda tutti gli ambiti della società e tutte le etnie. Negli Stati Uniti abbiamo esempi vastissimi e il contrasto con l’antichità è piuttosto grande. Non dobbiamo affrontare l’argomento al passato perché il male ha radici economiche e sociali, nell’antichità avevamo una società molto diversa. Non credo che occorra parlare di catarsi, quando si raccontano storie crime è un modo di fare un resoconto di quello che avviene nella società, di fatti che accadono realmente. La criminalità contro le giovani donne negli Stati Uniti è frequente.
2. Nel suo libro si prende spunto da una storia vera che poi viene estremizzata. Quanto è cambiato l’atteggiamento nei confronti del corpo delle donne rispetto ad allora?
J.C.: Nel libro Macellaio ho attinto a una storia dell’Ottocento e ancora prima la situazione era addirittura più primitiva. Mi sono basata sulle storie di tre medici ma alcuni aspetti erano ancora presenti nel ventesimo secolo. Anche oggi, in qualche parte del mondo, si ha una visione primitiva delle donne dal punto di vista biologico, sociale e religioso, considerate inferiori all’uomo, asservite all’uomo. Noi ci siamo liberate di alcuni aspetti, ma in altre parti del mondo questo non avviene. Tuttora assistiamo a tragedie quotidiane, anche negli USA stiamo facendo passi indietro. Pensavamo di essere una società progressista, avanzata, ma le cose stanno peggiorando.
Tra l’altro già nella metà del ventesimo secolo molte donne hanno cominciato a diventare medici. Quindi donne che si occupano del corpo di altre donne, un cambiamento radicale.
Negli USA ci sono più dottoresse che dottori e anche io ho tutti medici donne.
3. Il romanzo è ambientato in un manicomio e si parla di “isteria” delle donne. Quindi c’era un potere totale sulle donne, che quando erano ribelli o povere venivano rinchiuse. Quando parla di rapporto di potere e di isteria che legami ha lei con l’oggi?
J.C.: Credo che il concetto sbagliato che le donne fossero isteriche e gli uomini no, forse risale addirittura da Aristotele, data l’etimologia della parola. Gli uomini credevano che non avendo l’utero a loro non potesse succedere. Però le cose sono cambiate.
4. Le donne però quando si arrabbiano, si continua a dire che siano isteriche…
J.C.: Anche negli Stati Uniti ci sono queste espressioni sessiste. Per esempio, una donna che concorre in politica ha un grande svantaggio (e lo abbiamo visto), deve essere perfetta. Mentre per l’uomo c’è molta più permissività. Abbiamo dei politici uomini talmente pessimi che diventa difficile persino parlarne. Molte donne hanno personalità eccellenti, carriere luminose, scrivono libri, tuttavia sono ancora svantaggiate rispetto a un uomo. Di una donna si dice che è ambiziosa con accezione negativa.
5. In questo libro, ma forse ancora di più in “Sorella, mio unico amore”, “Blonde”, “Acqua nera”, o comincia da un fatto di cronaca (anche in Zombie), oppure da un personaggio – quindi parte da un dato reale – e poi romanza una storia, una realtà. Dove nasce questa voglia di mescolare il piano della realtà con la finzione?
J.C.: Alla base tutta la narrativa è uno specchio del mondo. Come diceva Stendhal, il romanzo si muove e nel muoversi riflette la società. In un romanzo c’è la storia con un cast più ridotto. Nei miei romanzi parto da uno spunto reale e trovo in questo spunto qualcosa di archetipico. Come per esempio in “Acqua nera” che lei ha citato, gli eventi storici riescono ad avere un significato universale, specialmente per le donne. E in questa storia mi sono concentrata più sulla vittima, quindi cambiando la prospettiva rispetto al fatto reale.
6. Per questo libro ha fatto molte ricerche, scavando in alcune storie che l’hanno portata ad avere un contatto più intimo e diretto con il dolore, la sofferenza femminile benché lontani nel tempo. In che modo questo ha influenzato la sua scrittura rispetto a quanto ha pubblicato fino a oggi?
J.C.: Un romanzo che non è stato tradotto in Italia, “A Bloodsmoor Romance” racconta una storia che risale all’Ottocento, riguarda quattro sorelle e un padre ed è ambientato negli Stati Uniti. Per la sua stesura mi sono occupata anche della storia della medicina, è un argomento che mi è sempre interessato, visto che riflette molto l’atteggiamento che la società e gli uomini hanno verso le donne. Per inciso, mio marito (purtroppo scomparso) era un ricercatore. Si impara moltissimo dalla storia della medicina.
7. Visto che all’interno del romanzo si parla anche di schiavitù, il personaggio del Macellaio mi ha colpito molto, soprattutto il suo delirio di onnipotenza di poter credere di salvare tutte queste donne dalle loro malattie, questi personaggi femminili che a un certo punto chiedono al dottore: “Ma esiste un contratto? Quando sarò libera?” Sempre un accenno quindi alla schiavitù delle donne. Quanto ha voluto affrontare l’argomento già dell’epoca, che riflette secondo me anche l’attualità nel modo più assoluto sulla schiavitù delle donne?
J.C.: Tutto vero… Mentre scrivevo il romanzo pensavo anche alle situazioni attuali, all’oggi. Parliamo qui dei nostri antenati, intorno al 1850 cominciava a farsi strada l’idea dell’abolizionismo culminata con la Guerra Civile americana, grazie alla quale sono stati fondati per la prima volta dei college femminili, a quell’epoca partiva tutto questo. Peccato che però fino al 1920 le donne in America non hanno potuto votare. È stata una lunga battaglia e nel libro ho voluto prendermi una rivincita (nell’intervista erano presenti spoiler che abbiamo preferito omettere).
8. Alcuni dei prodotti letterari che parlano di oppressione e di controllo sulle donne, hanno ambientazioni o distopiche o gotiche. Perché pensa ci sia bisogno di questa distanza temporale nella narrazione per far emergere questi temi?
J.C.: Faccio l’esempio del racconto di Buzzati, Sette piani, una persona che viene ricoverata in ospedale, man mano scende di piano fino ad arrivare al piano terra, quindi la malattia progredisce. Lui parte da un’idea psicologica e ne fa una storia, che ha degli aspetti realistici ma in realtà parla di un aspetto psicologico. Ho apprezzato questo suo humor nero che Buzzati aveva, è un esempio davvero brillante di surrealismo. John Updike avrebbe potuto scrivere una storia simile, ma l’avrebbe caricata di molti più dettagli, più personaggi laterali, invece Buzzati riesce a rendere una storia molto semplice con una parabola. Alle volte il realismo è davvero potente, oppure l’aspetto surreale può esserlo. Anche Calvino lo trovo davvero unico, con un diverso atteggiamento nei confronti della realtà.
A proposito del rapporto fra realismo e selettività nel racconto, quando ho scritto “Blonde”, che parlava di Marylin Monroe, lei era cresciuta in più orfanotrofi, in più di una famiglia adottiva, ha avuto più aborti, ma di questi tre esempi ne ho scelto sempre solo uno, perché dal punto di vista narrativo funziona di più.
8. Nelle interviste che ha rilasciato, le chiedono spesso dell’aggressività e della crudeltà presenti nei suoi romanzi, anche se io vedo tanta luce. Si è stancata di rispondere dopo tutti questi anni alla domanda?
J.C.: Io penso che la fiction sia uno specchio della vita, le donne da sole risultano deboli, ma quando più donne si mettono insieme e riescono ad avanzare e ribellarsi nei miei romanzi, la forza sta nel gruppo, nella collettività. Quando in America dopo la guerra civile si è abolita la schiavitù, nello stesso tempo è partita una lotta per i diritti della donna. Ci sono voluti molti decenni ma alla fine si sono affermati. Spesso nei miei romanzi alla fine c’è un risvolto positivo per le mie protagoniste.
Nel film italiano “C’è ancora un domani” con Paola Cortellesi, ci si concentra sulla condizione femminile di una donna intrappolata nella condizione domestica e piano piano acquista maggiore forza. Quando va a votare, una folla di donne è una visione fortissima, potente, vedere insieme tutte le donne che vanno a votare.
Questo film parte da una base realistica per arrivare a delle scene surreali, come quella del ballo. Ho trovato molto interessante questo modo di spostarsi dal realismo e avere un risultato artistico molto elevato.
9. A proposito del #meeto, ricollegandoci all’America che sta un po’ limitando i diritti delle donne, come l’aborto: cosa è cambiato dal #meeto a oggi? Trova che stiamo tornando indietro?
J.C.: L’America è un Paese molto grande, ci sono grandi differenze nelle diverse aree del paese, in alcune zone troviamo persone istruite mentre nelle aree rurali, poco popolate, troviamo esattamente il contrario: persone senza istruzione, contro la scienza, antifemministe, contro la democrazia e l’umanesimo laico. L’illuminismo che abbiamo avuto nel diciottesimo secolo in alcune parti dell’America siamo ancora nel Medioevo.
Presentata da Antonio Monda al Teatro Franco Parenti in collaborazione con La Milanesiana la sera del 5 dicembre, questa la motivazione del riconoscimento che riassume l’intenso legame tra la scrittura della più grande scrittrice americana vivente e il senso profondo del genere noir.
“Sublime ingannatrice del tempo, sia nell’aspetto di eterna ragazza sia nella sua scrittura potente e cristallina che non scende a nessun compromesso, come solo le voci più ribelli sanno imporsi di risuonare, Joyce Carol Oates è per noi l’artista della letteratura oggi più efficace nel raccontare il nodo oscuro, spesso sanguinario e inconfessabile, che lega i membri di una comunità. Una voce letteraria inconfondibile dall’imprescindibile valore morale di monito a tutti noi: raccontare la realtà con le armi seduttive della finzione, è salvare la nostra memoria e noi stessi dall’estinzione”.
Se volete leggere la sua biografia e la sinossi di Macellaio, cliccate su questo link