Paola Barbato, milanese di nascita, bresciana d’adozione, prestata a Verona dove vive con il compagno, tre figlie e due cani. Scrittrice e sceneggiatrice di fumetti, sceneggia dal 1999 Dylan Dog per la Sergio Bonelli Editore, oltre a partecipare a diverse altre serie a fumetti. Ha pubblicato per Rizzoli, Bilico (2006), Mani nude (2008, vincitore del Premio Scerbanenco, da cui è stato tratto un film nel 2024), Il filo rosso (2010). Con Edizioni Piemme ha pubblicato Non ti faccio niente (2017), la trilogia Io so chi sei (2018), Zoo (2019) e Vengo a prenderti (2020), quindi L’ultimo ospite (2021), La cattiva strada (2022) e Il dono (2023). Dal 2019 collabora anche con Il battello a vapore scrivendo libri per bambini e ragazzi. Nel 2009 ha scritto la fiction Nel nome del male per Sky.
1. Bentornata su Contorni di noir e grazie per la tua disponibilità. La prima domanda è una specie di rito nelle mie indagini sulle letture: com’è nata l’idea per questo romanzo?
P.: Da sempre ero affascinata alla sindrome di Münchhausen per Procura, avevo seguito vari casi di cronaca che la coinvolgevano ed era un tema che volevo trattare. Quando ho deciso che avrei presentato un personaggio protagonista che fosse colpevole sin dalla prima pagina, mi è venuto spontaneo abbinare le due cose, e inevitabilmente il personaggio è diventato madre, figura ricorrente in questa patologia. Il secondo grande tema è il legame che unisce persone che hanno subito lo stesso trauma, più forte di tanti legami basati sull’affinità. Questi due assi portanti hanno costituito la base della storia.
2. Ho apprezzato tantissimo la protagonista, per il modo in cui si è circondata dalle sue colpe e per la maniera con cui ha affrontato ciò che stava succedendo. Mi piacerebbe che tu la descrivessi a chi ancora deve leggere il libro.
P.: Mara, che vive utilizzando un nuovo nome ma che prima si chiamava Mariele, è una donna che non crede di aver pagato per le proprie colpe, e si impone una perenne espiazione. Mortificando il proprio aspetto e limitando ogni contatto umano, vive chiusa in casa da cinque anni, circondata da scatoloni bianchi nei quali sono stati rinchiusi tutti i ricordi di una vita intera. Si impone di non poter mai dimenticare tutto ciò che ha perso, le scatole contenenti le memorie sono una perenne giuria con il dito puntato.
3. Oltre a Mara, il personaggio attorno a cui ruota la storia ci sono altre donne che ha conosciuto nel periodo di costrizione nella struttura di recupero psichiatrica, ognuna di esse con il proprio lato luminoso e quello in ombra. Quali sono le doti e i difetti di ognuna?
P.: Amo queste quattro donne, in ciascuna di loro c’è una parte di me. Moira è la donna che vorrei essere, ieratica, sicura, certa di avere in mano la verità. La sua sicurezza è contemporaneamente uno strumento straordinario e una condanna, perché non ammette errori. Fiamma, personaggio straordinariamente complesso, è bugiarda, manipolatrice, egoista, ma in lei c’è ancora una leggerezza bambina, la capacità di vivere anche le cose più terribili come un gioco. Maria Grazia è il personaggio in cui mi identifico, donna granitica, rigidissima, che accumula senza mai sfogare e prima o dopo è destinata a esplodere. E’ la voce della razionalità, ma anche, lato tenerissimo di lei, quella che non riesce a contrastare l’amore per le amiche, con cui lotta in una battaglia persa in partenza. Infine Beatrice, diafana, scollegata dalla realtà, che vive in un proprio mondo in cui decide cosa sia vero e cosa no, ma poi si scontra con la vita vera e ne esce a pezzi. Amo la facilità con cui si affida, entra in confidenza, si sente parte di un tutto che, forse, non la accoglie davvero.
4. La famiglia è al centro di questo libro. La protagonista, a causa della sua malattia, la vive in un determinato modo in cui due fatti estremi sono legati in maniera indissolubile, come amore e veleno. Perché hai scelto di contestualizzarla rispetto a questo forte contrasto e magari in altri termini e quanto questo rispecchia la famiglia nel contesto sociale odierno?
P.: La patologia di cui soffre Mara si basa proprio su questo paradosso: chi soffre di sindrome di Münchhausen per Procura non fa ammalare persone estranee, ma solo chi ama. Non vogliono dare la morte, ma curare, perché è attraverso la cura che si sentono meritevoli. Nel suo caso, Mara/Mariele avvelena marito e figli perché li ama e il solo modo che conosce per amare è curare. Portato all’estremo, è un rapporto che si vede in molti contesti famigliari, nei genitori che ipernutrono i figli, in quelli che li costringono a dedicarsi a troppe attività, in chi per favorire e aiutare invece distrugge. Non è un male di oggi, naturalmente, la genitorialità evolve, ma l’ossessione amorosa per il figlio è un male antico.
5. Per quanto riguarda i personaggi maschili, come Luca, ex marito e padre che si trova a dover superare la tragedia vissuta e Anand, giovane corriere in cui s’imbatte la protagonista in fuga, come vogliamo descrivere il loro comportamento rispetto al rapporto con la protagonista?
P.: Sono due figure assolutamente positive. Luca avrebbe avuto ogni diritto di incattivirsi, invece preserva sé stesso e i figli dall’odio. Non getta le cose dell’ex-moglie ma le conserva per lei, non cerca di danneggiarla, fa del suo meglio per lasciare aperto uno spiraglio. Anand è il mio eroe, un invisibile, come sono tanti corrieri, gentile, amabile, cresciuto in un matriarcato e per questo pronto a vedere il bene in Mara. E’ la versione “light” di Moira: decide quale sia la verità e agisce di conseguenza, con la differenza che Anand è sempre e solo positivo.
6. Se dovessi scegliere un sentimento che più di altri è parte costante dell’intero corpo del romanzo, quale sceglieresti e perché?
P.: Forse lo struggimento. E’ una parola antica che suona “forte”, ma ciascun personaggio avverte in sé quella nota dolente di perdita, di mancanza, di ineluttabile, eppure tutti si protendono verso ciò che hanno perso.
7. “La torre di avorio” mi è piaciuto molto e mi piacerebbe sapere quali sono state (se ci sono state), le tue difficoltà nello scriverlo e quando invece la storia scorreva senza problemi? E in che modo è diverso dai tuoi romanzi precedenti?
P.: Non ho avvertito questo libro come “diverso”, ma probabilmente lo è, dato che in molti me lo hanno fatto notare. E’ nato in un periodo di grande stress, era il mio rifugio, un salvagente. Non mi sono mai “inceppata”, perché avevo bisogno di scriverlo. La parte più complessa è stato lo studio delle REMS, degli aspetti legali, dei veleni. Pare strano, ma un prontuario su “come fare un veleno” non esiste e mi sono dovuta dannare un po’.
Intervista a cura di Federica Politi