Intervista a Martta Kaukonen

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Martta Kaukonen

Martta Kaukonen (1976) vive a Helsinki. Prima di diventare una scrittrice a tempo pieno è stata critica cinematografica per i più importanti giornali nazionali. Il suo romanzo d’esordio, Butterfly, è stato un grande successo di pubblico e di critica in Finlandia e in tutta Europa: tradotto in 16 paesi, arrivato in vetta alle classifiche dello Spiegel in Germania, presto diventerà una serie tv. In Italia è stato pubblicato dalla casa editrice Longanesi e tradotto da Delfina Sessa. Prossimamente la recensione sul blog, nel frattempo abbiamo incontrato l’autrice con un gruppo di blogger e l’abbiamo intervistata per farci raccontare come nasce il suo romanzo.

1. Butterfly è l’esempio perfetto di quanto la realtà faccia più paura della finzione. I thriller, come i noir, sono diventati sempre più la cartina tornasole delle distorsioni della nostra società. La sua opera sembra una denuncia sentita e urgente, molto più che mero intrattenimento.
M.: Grazie, è stata davvero una cosa gentile da dire sul mio romanzo, ma naturalmente voglio che sia anche divertente. Perché nessuno lo leggerebbe se fosse noioso, ma naturalmente sono molto felice se mi dici che è anche più di questo.

2. Ira, Clarissa, Pekka, Arto. Ogni personaggio ha una voce unica, con tante sfumature nascoste. Quale personaggio ha faticato a tenere a freno, perché avrebbe voluto rivelare di più e prima?
M.: Direi nessuno. Perché non ho scritto il romanzo dall’inizio alla fine. Ho scritto l’inizio, e poi un capitolo qui, un capitolo là, e così via. Quindi quando volevo rivelare qualcosa, lo facevo e basta. E quando il romanzo cominciava a essere pronto, era un compito terribile mettere i pezzi al posto giusto. Ho giurato che non l’avrei mai più fatto e che nel mio prossimo romanzo avrei programmato tutto dall’inizio alla fine; ovviamente non l’ho fatto!

3. Ogni romanzo crime contiene almeno una paura che l’autore ha già dall’infanzia. Quale suo terrore racchiude Butterfly?
M.: La scena in cui Arto e i suoi amici sono adolescenti e giocano con la tavola Ouija. Sono sempre stata terrorizzata da tutto ciò che è soprannaturale. Da bambina avevo paura dei fantasmi, delle tavole Ouija, di tutto, anche dell’ipnotismo. Quindi questa è la mia paura.

4. Clarissa dice: Ho pensato molte volte che in Finlandia dovrebbe esserci una legge che obbliga chi vuole avere figli a sottoporsi a un serio test psicologico preventivo. Proprio come si verifica l’adeguatezza degli aspiranti genitori adottivi. Anche a rischio di essere io una dei bambini che, se la legge fosse esistita, non sarebbero mai nati.
Mi ha molto colpito il fatto che essere bambini nel luogo in cui si svolge la storia è due volte un problema: prima perché non sono sufficientemente difesi e poi perché non vengono creduti quando capita loro qualcosa. Mancanza di fiducia? Sono i genitori inadeguati o è una società non preparata ad ascoltare un certo tipo di traumi?
M.: Il test di cui parla Clarissa è un test reale in Finlandia, ma solo per le persone che stanno pensando di adottare dei bambini. Quindi, se si hanno figli biologicamente, non si deve fare alcun test, ovviamente. Ed è un un po’ un paradosso, secondo me, che non si possa adottare senza questo test, ma che si possano fare figli in altro modo.
Penso che sia insito nella natura umana, una tendenza possiamo dire forse all’indolenza quando si sente parlare di qualcosa di preoccupante. In un certo senso è come se fosse nella natura umana non fare nulla. E non sto dicendo che lo capisco, e non lo accetto affatto, ma penso che sia la natura umana.

5. A un certo punto scrive: “Viviamo nella società del fast food, che per rimarginare un trauma offre un cerotto invece dei punti di sutura. (Ci rimpinzano occhi, bocca e orecchie di ciarpame infiocchettato di rosa: cristalli che infondono energia positiva, angioletti e raggi di luce che leniscono i mali. Ma ci sono problemi che non si risolvono abbracciando un unicorno di peluche.”). E ancora: “Pretendiamo che le vittime si riprendano in fretta.” Crede ci sia una superficialità nell’affrontare queste fragilità o proprio una mancanza di volontà?
M.: Restiamo vicini alla prima domanda: penso che non si tratti di superficialità, ma della stessa natura umana, di una sorta di profonda avversione a intervenire e del fatto che pensiamo sempre a evitare il dolore. Tutto ciò che facciamo, come esseri umani, è per evitare il dolore. Questo è il motivo, credo, per cui la gente beve, usa droghe, perché tutti vogliono evitare il dolore, il dolore emotivo. Ed è per questo che le persone adottano sempre la soluzione più facile.
È più facile credere in una sorta di “soluzione magica”, piuttosto che in una vero percorso, una terapia.

6. In tutto il testo, ben ventotto volte viene ripetuta la parola suicidio, qualcosa che nei paesi nordici risultano ormai da parecchio tempo superiori alla media europea. Quasi come se un problema non potesse trovare soluzione se non attraverso l’annullamento del proprio io. È un tema di cui se ne parla diffusamente o c’è sempre qualche reticenza?
M.: In Finlandia si parla spesso di questo argomento. Il motivo è che negli anni ’80 era una delle cause di morte più comuni. Nel 1986, quasi quarant’anni fa, la situazione era così grave che il governo e il sistema sanitario dovettero elaborare un programma di prevenzione del suicidio. E questo è il motivo per cui se ne parla ancora. Il programma ha funzionato, non ci sono più tanti suicidi, ma il tasso di suicidi era altissimo. Ora, il paradosso è che siamo considerati il Paese più felice del mondo secondo molte statistiche, ma allo stesso tempo ovviamente abbiamo ancora problemi di salute mentale, depressione, suicidi, anche più di molti altri Paesi.

7. Argomento che ho trovato ricorrente è il senso di colpa di cui soffrono i personaggi del romanzo, da Clarissa, a Arto, a Pekka e perfino dalla stessa Ira. È qualcosa che condividono e in che modo riescono ad affrontarlo? Chi ne è più consapevole?
M.: Penso che il senso di colpa di Clarissa e Pekka sia totalmente falso. Non provano nulla, ma cercano di manipolare il lettore facendogli credere di sentirsi terribilmente in colpa.

Intervista a cura di Cecilia Lavopa e di IlRecensore.it