Editore Elliot
Anno 2025
Genere Thriller
516 pagine – brossura e ebook
Traduzione di Massimo Ferraris
Introduzione di Merve Emre
Prefazione di Ishmael Reed
La Seconda guerra mondiale è finita, il nazismo e il fascismo sono stati sconfitti. Milioni di americani, bianchi e neri, sono tornati a casa dai campi di battaglia. Per molti la guerra non è finita davvero, quella sul fronte interno dei diritti civili continua, per un’esistenza piena, libera, per avere una propria voce. E non basta. Dietro il velo, dentro la tana del Bianconiglio, c’è qualcos’altro. Un’altra guerra, segreta, profonda, interiore, è quella che Max Reddick, a diversi livelli di consapevolezza e intensità e pericolo, sta combattendo da tutta una vita.
Seguiamo lo scrittore di colore Max Reddick per molte pagine, molte vite, da giovane scrittore veterano di guerra per quasi due decenni. In appartamenti scarni, in giro per l’Europa del rinascimento culturale e intellettuale e l’Africa dei movimenti di indipendenza, lo seguiamo nei suoi amori, la passione per le donne bianche, la vita del ghetto e la carriera di reporter su verso la cima della piramide del merito nello scrivere. Max cresce e scrive, pagine dopo pagine la lettrice e il lettore assistono allo svolgere di mente e corpo del protagonista, mentre raccoglie successi e assiste a una società che prova a cambiare, il primo melting pot della storia.
Pian piano, pagina dopo pagina, viaggi, amanti, la malattia e le tragedie, incursioni tra hipster e socialite, indizi, sospetti, si accumulano. Il gioco sembra truccato, i sussurri allarmati dell’inconscio si fanno sempre più forti. Il protagonista vede come il sistema, anche editoriale, fa di tutto a che un nero parli dei neri, che come comunità devono aspettare, in silenzio, in una pazienza che brucia speranze, esistenze. Un sistema che sembra cospirare contro la vita. La sua, dei suoi amici, degli afroamericani tutti.
E una cospirazione, reale, segreta, non culturale o metafisica, esiste, eccome.
Tutta la vita del protagonista, una vita tormentata, complessa, divertente ed edonista, una vita da scrittore e da scrittore nero, in qualche modo sembra prepararlo alla rivelazione. In qualche modo la riconosce subito, nella sua enormità, nella sua dimensione globale, proprio dai piccoli e grandi eventi della sua vita.
L’uomo che gridò io sono di John A. Williams recentemente pubblicato da Elliot è un romanzo enorme, non per numero di pagine che pur tante semplicemente scorrono, dotate di una scrittura che permette un’immersione totale nella lettura. Contiene decenni di un mondo, complesso, stratificato dove la lotta per le parole “tutti gli uomini sono creati uguali” continuano a sembrare a un punto di svolta che è pericoloso, sfuggente, tra l’utopico possibile e l’orrore distopico che prova a tornare, per nulla relegato ai mostri del colonialismo o ai campi di concentramento.
Gli americani avevano paura di estrarre tutto il significato, fino all’ultima goccia, dalle parole che avevano dato origine al loro paese.
È un libro sulla scrittura, sul compito dello scrittore e insieme sulla sua vita, fatta di privazioni, competizione, politiche editoriali, invidia e frustrazione. Sul creare una propria voce e darla ai senza voce ed emergere dal buio. Sulla lotta per un anticipo, per scrivere un libro, per un posto nell’underground come nell’uptown giornalistico, per un premio letterario. Uno squarcio universale su quanto il “mercato delle idee” non sia per nulla uno gestito a mano invisibile. Memorabili sono i dialoghi tra Max, il suo agente e i suoi colleghi scrittori, sullo spettro dell’Olocausto, sulla gabbia delle norme creata per costringere le voci delle minoranze ad accettare il proprio posto nel mondo, uno che è gestito dall’”uomo bianco”.
Il romanzo di Williams è ricchissimo. Di quel tipo di romanzi che sono l’opera di una vita oltre che di grandi mani. È uno scorrere di personaggi bellissimi come Moses Lincoln Boatwright, il cannibale. Una scena che ricorda l’assassino ne L’uomo senza qualità. In L’uomo che gridò io sono però la distanza tra l’assassino e il protagonista è ridotta a zero: per lo scrittore nero non c’è distanza di sicurezza né un castello in cui rifugiarsi dai suoi demoni e dal pericolo.
È un romanzo che mostra senza retorica, mettendo in scena, le dinamiche del privilegio, il narrativo perfetto di post colonial e cultural studies. La sicurezza economica o la libertà di baciare una donna sono per il protagonista qualcosa di fragile. Il peso della disuguaglianza e l’inerzia nel risolverla continua a produrre traumi, distruggere sogni, interrompere futuri. Qualcosa che colpisce le persone e che, nella sua profonda ingiustizia, sembra alimentare, preparare, mostri e demoni.
Avevano avuto diverse opportunità. Avevano avuto la guerra civile, che doveva essere un nuovo inizio. La ricostruzione, che doveva essere un nuovo inizio. L’esercito desegregato di Truman, che doveva essere un nuovo inizio. Il 17 maggio 1954, che doveva essere un nuovo inizio. La marcia dello scorso agosto, che doveva essere un nuovo inizio. La marcia dello scorso agosto, che doveva essere un nuovo inizio. Ogni nuovo presidente, la bocca piena di belle parole, prometteva un nuovo inizio. C’erano sempre partenze; grandi e piccole, ma non c’erano mai arrivi. I documenti di Enzkwu dimostravano che avevano finto per tutto il tempo; per tutto il maledetto tempo! Il tempo era passato, ma sotto la superficie il cambiamento rimaneva in dubbio. Era ora che venissero a sapere, una volta per tutte, che i neri ormai avevano scoperto tutto. Basta con quelle stupide interviste televisive:
Signore, lei è un nero violento?
Bellissima tutta la sottotrama del rapporto tra Max ed Harry Ames. La dialettica tra i due scrittori, tra scrittore veterano e giovane scrittore, tra il “padre” riconosciuto e il discepolo renitente rende la traditio lampadis ancora più intrigante e pregevole dal punto di vista letterario oltre ad essere uno dei motori della macchina narrativa. Il sottotesto della paternità, biologica come letteraria, è un altro pregevole momento che meriterebbe ulteriore attenzione.
Tutto il plot si svolge in un lungo climax fino allo svelamento finale, il segreto che è frutto del caso eppure in piena vista. La cecità cessa, la dissonanza viene risolta, la voce matura si trasforma in un grido. La violenza, espressa e sottotraccia, sistemica e repressa, sui corpi e sugli animi, è continua. Che sia nelle case di Harlem o alla Casa Bianca, nelle università come nelle foreste angolane Williams mostra via via i fronti della Guerra Fredda come in un Empire di Gore Vidal da un’altra prospettiva, probabilmente migliore, alla giusta distanza dal potere, dalla periferia che subisce il potere ma che è anche luogo da cui rivoluzioni e verità scaturiscono. Più Max si avvicina alla verità e al potere più l’ecosistema di popola di uomini armati, politici, spie e uomini la cui prosa è mostruosa, fredda, nell’apparato lessicale e concettuale dell’eliminazionismo per una realissima cospirazione contro la razza umana. L’intelligenza politica intrinseca del libro non fa pensare neanche per un attimo a un fantapolitico. Il “King Alfred” in L’uomo che gridò io sono è oltre il realistico: è un mostro che guardando sotto il letto ricambia lo sguardo.
Questo è un grande romanzo americano, un maestoso thriller accidentale in cui un uomo comune ogni giorno, per anni, combatte contro difficoltà via via sempre più eccezionali, verticali, fino allo scontro in qualche modo finale. Lo scrittore Ishmael Reed dice che uno scrittore deve “pensare l’impensabile e dire l’incidibile”. Per farlo, per rispondere alla canzone di Kanye West Who will survive in America, serviva una storia eccezionale e una scrittura che sembra portare il peso del mondo. John A. Williams è il gigante che è riuscito.
Antonio Vena
Lo scrittore:
John A. Williams, nato nel 1925 in Mississippi in una famiglia della classe operaia. Visse la sua infanzia a Syracuse, New York. Dopo un’esperienza in Marina durante la Seconda Guerra Mondiale, studiò giornalismo e divenne corrispondente europeo per le riviste «Ebony» e «Jet» e occupandosi di Africa per «Newsweek». Pubblicò più di venti libri di narrativa e saggistica tra cui The Angry Ones e Click Song con cui vinse l’American Book Award nel 1982. Nel 1962 venne annunciato come vincitore del Prix de Rome, ma quando si recò a ritirarlo, a seguito del colloquio con la giuria, il premio non gli venne assegnato. L’uomo che gridò io sono, del 1967, è considerato il suo capolavoro. È morto nel 2015 in New Jersey.