Andrea Sirotti è nato nel 1960 a Firenze, dove insegna lingua e letteratura inglese. Fa parte della redazione di «Semicerchio», rivista di poesia comparata (http://www.unisi.it/semicerchio/) e di «El Ghibli», rivista online di letteratura della migrazione (http://www.el-ghibli.provincia.bologna.it/). Ha collaborato come critico e traduttore a svariate altre riviste letterarie tra cui «Pagine», «Le voci della Luna», «Sagarana», «La Rivista dei Libri», «Smerilliana», «Testo a Fronte», «Soglie», «451», ecc. Dal 1999 svolge l’attività di traduttore letterario freelance, soprattutto di poesia e di narrativa postcoloniale. Opera da anni come promotore di iniziative culturali e letterarie; ha infatti collaborato all’organizzazione di svariati festival di poesia internazionale tra cui “Indiapoesia” (Roma 2000), “DiVersi Racconti” (Vietri sul Mare 2002 e 2003), “Voci Lontane, Voci Sorelle” (Firenze 2003-2004-2005-2006-2008), “Parmapoesia” (2008). Dal 2000 al 2008, insieme a Vittorio Biagini, ha curato per il Comune di Firenze le iniziative sulla poesia giovanile “Nodo sottile”. Ha tenuto corsi e singole lezioni di traduzione letteraria e editing presso varie università (Bologna, Arezzo, Pisa, Venezia) e altre agenzie formative (AISLI, CSL Toscana, NTL, «Semicerchio», ecc.). Dal novembre 2007 collabora al Master di II livello in traduzione postcoloniale dell’Università di Pisa, insegnando traduzione poetica, e seguendo i tirocini formativi. Insieme a Shaul Bassi ha pubblicato nel 2010 Gli studi postcoloniali. Un’introduzione, per i tipi de Le Lettere, Firenze.
1. Benvenuto sul mio blog, Andrea! Come si può rispettare la musicalità della poesia attraverso la traduzione? Quali le principali differenze rispetto a un romanzo?
A.: Le differenze fra il tradurre poesia o narrativa rimandano alle differenze di fondo tra i due generi letterari, ai loro diversi “ingredienti” costitutivi. Cosa bisogna rispettare, in poesia, a cosa occorre essere fedeli? Certo non alla “lettera”, e nemmeno al contenuto, trattandosi di una forma letteraria complessa e condensata in cui la forma ha un ruolo essenziale, se non prevalente; ma d’altra parte non basta nemmeno essere fedeli alla metrica o allo stile, oppure a quella “musicalità” a cui accenni nella domanda. Penso che il tentativo che si debba fare, traducendo poesia, è quello di cercare per quanto possibile di far rivivere l’atto creativo che ha ispirato l’originale. In altre parole, cercare di rispettare la poetica dell’autore producendo un testo letterario che sia in qualche modo – e a buon diritto – anch’esso una poesia e che si ponga allo stesso tempo in un rapporto “intertestuale”, di ascolto empatico e di dialettica nei confronti dell’originale (un testo che dialoga con un altro testo). Sta al traduttore, di volta in volta, decidere quale aspetto far prevalere in quel particolare testo, e intorno a quello operare la traduzione. L’ambizione del traduttore di poesia è quella di rovesciare il famoso detto di Robert Frost secondo cui “la poesia è ciò che si perde in traduzione”. Sarebbe bello poter affermare, al contrario, che “la poesia è ciò che rimane in traduzione”,quello che in definitiva viene traghettato da una parte all’altra del confine culturale.
2. Perché scegliere un genere come la poesia? Mi incuriosisce..
A.: Semplicemente perché sin da ragazzo leggevo molta poesia, soprattutto straniera, e amavo molto capire e tradurre i testi delle canzoni, quella forma popolare di poesia che affascina gli adolescenti di ogni latitudine. Non va mai dimenticato che la traduzione è una forma molto attenta e puntigliosa di lettura. In genere ci troviamo a tradurre quello che amiamo leggere (o magari, perché no, quello che proviamo anche a scrivere). Il fatto, poi, che io sia diventato un traduttore di poesia e di narrativa lo si deve a una serie di circostanze tutto sommato abbastanza casuali. Nel mio caso la frequentazione, negli anni novanta, dei corsi di scrittura poetica della rivista Semicerchio: http://semicerchio.bytenet.it/ con la quale collaboro tuttora, durante i quali presi atto che sarebbe stato meglio rinunciare alle mie velleità autoriali per dedicarmi, piuttosto, alla traduzione e alla critica. Per quanto riguarda la narrativa indiana e postcoloniale, invece, è stato determinante l’incontro con Anna Nadotti, che nei primi anni duemila era consulente e editor per Einaudi e che mi ha dato fiducia accogliendo benevolmente le mie prime proposte di traduzione.
3. Come funzionano i corsi di traduzione letteraria e come si diventa traduttore?
A.: I migliori corsi di traduzione letteraria devono prevedere, a mio parere, un buon equilibrio tra basi teoriche e attività pratiche e laboratoriali. La traduttologia è importantissima per rendere un traduttore consapevole della portata culturale e della delicatezza del suo mestiere, per metterlo di fronte alla responsabilità ideologica di quello che fa, a corroborare le proprie scelte attraverso i presupposti scientifici e le riflessioni metodologiche e strategiche.
Si diventa traduttori soprattutto per interesse e passione, ma anche, direi, attraverso l’esperienza di vita e la conoscenza del mondo, requisiti a mio giudizio ancora più importanti dell’ottima conoscenza (pur imprescindibile) delle lingue coinvolte. Lo dico perché, in qualità di docente di traduzione, mi capita spesso di incontrare molti aspiranti traduttori ferratissimi da un punto di vista strettamente linguistico, ai quali manca a volte la necessaria curiosità e capacità di riflettere sulle “differenze” culturali, prima che linguistiche. Occorre anche la tenacia che porta sempre a operare ricerche, a non accontentarsi mai, anche se poi, purtroppo o per fortuna, ci sono le deadline degli editori che pongono necessariamente fine all’incessante labor limae.
4. Approccio con le case editrici: quali caratteristiche cerchi in loro? Quando un traduttore può dirsi appagato dal rapporto che si instaura?
A.: Non ho nessuna aspettativa particolare nei confronti degli editori, se non l’auspicio di poter collaborare serenamente con loro. Un rapporto di soddisfazione con lo staff di una casa editrice avviene quando c’è stima reciproca, unita al rispetto e alla conoscenza del mestiere dall’altro. Soprattutto delicato è il rapporto con il revisore/editor che deve intervenire sul tuo lavoro. È un’operazione delicata e occorre collaborare senza eccessive rigidità. Il presupposto è quello (purtroppo non sempre reale) che avvenga un dialogo tra persone di pari competenza e esperienza in grado di cooperare per un unico fine: migliorare il prodotto finito. Qualche anno fa, a seguito di un convegno sul “L’etica della traduzione”, svoltosi alla SSLMIT di Forlì, l’allora Sezione Traduttori del Sindacato Nazionale Scrittori elaborò un decalogo di buone prassi ai fini della collaborazione fra revisore e traduttore letterario, gli interessati tra i tuoi lettori possono leggerlo qui: http://www.traduttoristrade.it/decalogo/ .
5. Il traduttore è, prima di tutto, un lettore. Come ti avvicini al testo da tradurre? Lo leggi tutto prima o è un percorso graduale?
A.: Sì, penso che sia indispensabile leggere tutto il testo prima, non vedo come si possa fare altrimenti. Se è una raccolta poetica, è fondamentale individuare le corrispondenze tra i testi poetici, riconoscere le caratteristiche di linguaggio e stile, per riflettere su quello che è indispensabile “non perdere”. Se è un romanzo, per immergersi nel suo ritmo, nel suo fluire stilistico, e per prendere confidenza con le “voci” individuali dei personaggi, oltre che con i vari idioletti coinvolti. La prima lettura è per me anche una vera e propria “pre-traduzione” in cui, letteralmente, utilizzo una matita appuntita per prendere nota a margine di alcuni punti critici (e abbozzare prime soluzioni) che sicuramente dovrò affrontare durante la traduzione vera e propria.
6. Che io sappia, in base alle interviste che mi sono state rilasciate dai tuoi colleghi, non vi è nessuna partecipazione agli utili di un romanzo venduto, anche se all’atto pratico il successo dello stesso dipende anche dalla sua traduzione… cosa ne pensi?
A.: Penso che al di là di quello che recita la legislazione in materia, peraltro ormai piuttosto datata, il traduttore è di fatto una figura “ibrida” tra un prestatore d’opera e un (co-)autore. Pertanto credo che il suo compenso debba essere altrettanto composito: una parte valutata oggettivamente, “a cartella”, per la misurabilità e la quantificabilità del lavoro commissionato e svolto, affiancata, magari, da una piccola parte di compartecipazione agli utili che andrebbe a compensare l’aspetto meno misurabile e oggettivo del lavoro “d’ingegno”. Sembra un’utopia, ma mi risulta che in altri paesi, in altre realtà, funzioni proprio così.
7. Quale legame intercorre fra te e quelli che svolgono il tuo stesso lavoro? Siete uniti a portare avanti le vostre rivendicazioni? Credi sia stato fatto qualche passo avanti?
A.: Direi che malgrado quello che si pensa comunemente del traduttore, visto come una figura solitaria e un po’ sfuggente, per tradurre è indispensabile sapersi relazionare con gli altri: autori, redattori, revisori, curatori, eventuali co-traduttori, ecc. Con buona pace di Luciano Bianciardi e della sua vita “agra”, un titolo che viene spesso citato (più o meno a proposito) per descrivere le vere o presunte asprezze della vita di un traduttore editoriale, oggi la rete consente una più stretta e costante relazionalità, permette ai professionisti di collaborare a distanza, sia attraverso i social network o Skype o i blog dei traduttori, sia mediante le mailing list “dedicate” ai professionisti del settore, tra cui la storica e benemerita Biblit, o la più giovane Qwerty, in cui professionisti affermati e traduttori alle prime armi si scambiano esperienze, chiedono consigli, espongono problemi traduttivi, o semplicemente socializzano tra loro. Quanto alle rivendicazioni, esiste da alcuni anni un sindacato specifico per traduttori editoriali, lo STRADE, molto attivo su diversi fronti, fiscale, contributivo, contrattuale: http://www.traduttoristrade.it/ Sta diventando sempre di più un punto di riferimento per molti di noi, anche se c’è ancora molto da lavorare per fare uscire la figura del traduttore dalla nicchia un po’ romantica e un po’ fumosa nella quale per anni ha vivacchiato, quella di non essere un mestiere vero e proprio, ma piuttosto un hobby per gentildonne «dal doppio cognome», senza soverchie preoccupazioni di far quadrare il bilancio.
8. Ho atteso (e sto attendendo ancora..) più tempo ad avere le risposte da parte dei traduttori che dagli scrittori stessi. Mi dici la tua opinione in proposito? Più faticoso tradurre o scrivere?
A.: Una maggiore prontezza nel rispondere da parte degli scrittori immagino possa essere spiegata anche con le esigenza di autopromozione o semplicemente col maggiore desiderio di far conoscere un lavoro creativo proprio e personale. Ciò premesso, la distrazione o la superficialità non sono mai giustificabili. E tanto meno la mancanza di rispetto.
Per quanto “di seconda mano”, la traduzione è in tutto e per tutto un’attività di scrittura, quindi la fatica che comporta è più o meno la stessa. L’unico vantaggio per quanto ci riguarda è che almeno siamo “immuni” dal blocco dello scrittore (anche se, magari, più ossessionati dalle mortifere scadenze).
9. Ho notato che alcuni autori (vedi Indridason) utilizzano sempre lo stesso traduttore per i loro romanzi. Ma come funziona? Chi decide? E’, appunto, l’autore o la casa editrice? E in base a quale criterio?
A.: Un editore, per quanto ne so, tende a dare un autore allo stesso traduttore, ma ci sono spesso delle esigenze editoriali e di marketing che ostacolano questa continuità. Posso portare un esempio personale: quando nel 2011 uscì in Inghilterra il secondo romanzo di Hisham Matar, Anatomia di una scomparsa, mi fu chiesto di tradurlo, visto che qualche anno prima avevo tradotto il suo libro di esordio, Nessuno al mondo. Purtroppo, però, i tempi di pubblicazione del libro, dovute alla crisi libica allora in corso e alla necessità di presentare autore e romanzo a imminenti festival letterari, erano troppo ridotti per me (che, venendo dalla traduzione poetica, manco un po’ della rapidità necessaria alla traduzione di narrativa) quindi, a malincuore, dovetti rinunciare. La cosa buffa e che in qualche modo quel secondo libro lo avevo visto “nascere”, in quanto Matar, vincitore del premio Vallombrosa nel 2007, mi aveva invitato l’anno successivo nel resort per scrittori sulle colline del Valdarno aretino in cui soggiornava come parte del premio ricevuto, e in quella occasione mi aveva letto in anteprima le pagine di quel libro allora ancora in bozze. L’incarico è poi stato dato a Monica Pareschi, e di questo fui contento perché sapevo che il “mio” autore sarebbe sicuramente passato in buone mani. In generale direi che si può paragonare l’abbinamento fra un autore e un traduttore a quello tra un attore e un doppiatore. Se la voce “italiana” a un certo punto cambia, non è detto che sia un male; forse, però c’è il rischio che il lettore (come lo spettatore) ne rimanga un po’ spiazzato. Anche se, magari, senza del tutto rendersi conto perché.
10. La vita dello scrittore è ardua e prima di arrivare al successo, gli ostacoli sono davvero numerosi. Com’è nella tua professione invece? Si può affermare che esista il traduttore “di successo”? Se si, in quali casi?
A.: La vita del traduttore è forse altrettanto ardua, ma non tanto per le difficoltà di arrivare al presunto “successo”, categoria abbastanza aliena a un traduttore, quanto piuttosto per ottenere un contratto in un campo in cui, soprattutto per certe combinazioni linguistiche, la concorrenza è fortissima, così come il rischio di dumping o di sfruttamento strisciante. Detto questo, esistono senza dubbio traduttori di “primissima fascia”, nomi autorevoli e talentuosi che diventano un punto di riferimento per tutti. Diciamo, per mutuare un termine dal calcio, dei top-translator. Mi astengo dal fare nomi perché mai come in questi casi il rischio di dimenticare qualcuno è in agguato!
11. Presumo che lo scrittore e il traduttore hanno una diversa prospettiva dello stesso romanzo. Raccontaci la tua, scegliendo un libro a caso di quelli che hai tradotto, quello che ti ha lasciato maggiori sensazioni.
A.: Cito anche in questo caso quello che mi ricordo meglio, l’ultimo romanzo tradotto, scritto da Chimamanda Ngozi Adichie, una donna nigeriana trentacinquenne che vive negli Stati Uniti. È abbastanza naturale che la sua voce italiana, un cinquantenne maschio piuttosto eurocentrico e stanziale, abbia idee e atteggiamenti diversi sul mondo e l’umanità. Ma è proprio questo il bello. Il “tradurre per differenza” porta in genere a risultati molto felici e sorprendenti, specie se nascono dalla curiosità e dal rispetto per l’altro. In particolare ho provato una vera e soggiogante fascinazione per la protagonista femminile di quel romanzo: Ifemelu, una donna “a tutto tondo”: sensuale, snob, vanitosa, sarcastica, tenace, competitiva, critica, irrazionale, contraddittoria, irrequieta, ma anche molto più “vera” e completa dei personaggi maschili, stilizzati e apparentemente più virtuosi, con cui ha a che fare durante il romanzo. Ifemelu, tra l’altro, ha una vera e propria ossessione per le acconciature e per i saloni di parrucchiera: niente di più adatto per me, che essendo calvo, da anni non conosco pettini né shampoo!
Comunque sia, le sensazioni che mi ha lasciato la traduzione di Americanah sono piacevolissime: in primis quelle di trovarvi, pur nelle enormi differenze, anche mille cose quotidiane, mille riflessioni in cui riconoscermi e poter dire “la mia”. Ed è davvero una splendida sensazione. La grande bellezza di questo mestiere.