Intervista a Valerio Varesi

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Valerio Varesi ha due filoni letterari nella sua attività: uno di narrativa pura, che è quello dei romanzi raccolti nella Trilogia di una Repubblica e che hanno ripercorso la storia italiana, e poi c’è la fortunatissima serie del commissario Soneri, che aspettavamo da due anni e molto amato dagli italiani. Dopo Il commissario Soneri e la legge del Corano, torna Varesi con La paura nell’anima, edito da Frassinelli. Abbiamo incontrato l’autore alla libreria Open di Milano e gli abbiamo fatto un po’ di domande sul romanzo e su tanto altro ancora.

1. Per questo libro ti sei ispirato a un fatto di cronaca, quella di Igor, il killer assassino. Ci spieghi il motivo di questa scelta?
V.: Perché mi colpiscono quei fatti di cronaca che al loro interno danno la possibilità di essere sviluppati, che è lo scopo che perseguo con il giallo e con il noir, cioè di arrivare a identificare l’assassino. Ma mi importa di più capire perché è successo, attraverso un’indagine, riuscire a capire l’oggi, l’attualità. Igor ci racconta una paura che non riguarda solo lui, una paura che non si vede ma aleggia. La paura più generale nostra di quest’epoca, che ci avvince e chi, politicamente, la usa per avere consensi.

2. Questo non è il primo romanzo di Soneri e, nonostante questo, il personaggio nel tempo si è sviluppato, caratterizzato. Com’è questa sorta di riscoperta per te, di volta in volta?
V.: Ho scelto un personaggio che si racconta, che invecchia, che attraversa la vita nel tempo. Mi piaceva che ogni episodio rivelasse qualcosa di lui, non solo per interesse del lettore, ma per rispetto verso un personaggio che non sia sempre uguale – tipo Maigret – tutti noi cambiamo, andiamo a letto alla sera e ci svegliamo al mattino un po’ cambiati. E’ come se morissimo un po’ e rinascessimo Questo mi pare lo renda più umano, più vicino a noi.

3. Nel tuo libro, non fa tanto paura il serial killer, elemento concreto del quale dobbiamo temere, quanto la sua presenza vada a interferire la vita normale di tutti i giorni, le abitudini stesse diventano pericolose. Quanto hai lavorato sulla paura delle piccole cose? Mi è piaciuta molto l’introduzione sui social network, di solito visti come parte ludica e qui usati per alimentare il senso della paura del quotidiano nelle persone. Quanto è facile farli diventare uno strumento di paura?
V.: Igor è uno che sa usare i social network, in qualche caso il social network ha rivelato il nascondiglio di un mafioso, ad esempio, mentre Igor lo usa per beffare gli altri, per approfondire questo elemento del: “Ci sono, ma non riuscite a prendermi.” Rende ancora più impalpabile questa minaccia, determinata dal fatto che ha ucciso due persone, che ha la fama di killer. Un elemento che scatena come un detonatore quelle paure latenti che abbiamo dentro di noi e che è effettivamente è accaduto in quella parte di pianura tra Bologna e Ferrara dove la vita è cambiata, la gente non usciva la sera o usciva in gruppo. Ha messo le inferriate, il vicino veniva guardato con sospetto. Corroso la vita sociale, i rapporti tra le persone. Assenza più acuta presenza, qualcosa che aleggia e che va a scatenare paure esistenziali. La paura del futuro, viviamo più isolati, non c’è un cammino collettivo.
Quindi Igor è la fiammella che incendia il bosco. Un fatto di cronaca cosa può scatenare e contenere.

4. Parliamo dell’ambientazione nel piccolo paese, la comunità montana che mi ha fatto venire in mente il fatto di Cogne, in cui si erano accusati tra vicini di casa. Per te la comunità chiusa moltiplica le paure della gente rispetto alla grande città?
V.: Credo proprio che sia più o meno la stessa cosa anche in città. Abitare in un palazzo e non conoscere chi ci abita, accentua l’elemento di mistero, di incertezza. Questo è ovviamente un paese inventato, forse in un mondo chiuso la voce corre più velocemente, la suggestione collettiva e la pandemia di paure sono più veloci rispetto alla grande città. Voglio che l’ambiente nei miei romanzi abbia una parte fondamentale, sia uno dei protagonisti. Per cui, questo mondo montano che riscopre un’arcaicità nell’epoca della razionalità, dell’elettronica, forse quasi paradossale che esista, che ritorna in virtù del fallimento del controllo. Questa arcaicità si esprime attraverso figure mitiche come il Baffardello, il folletto, a cui gli abitanti del paese molti anni prima davano la colpa alle situazioni che non riuscivano a spiegare.
La natura stessa diventa un elemento pauroso che ti fa sentire piccolo, ti schiaccia, rispetto alla grandezza delle montagne che ti circondano.

5. Ricollegandomi alla domanda precedente, mi interessa parlare del paesino in cui si svolge la storia come il fulcro del pettegolezzo, delle chiacchiere, nel quale se tu sei diverso dagli altri vieni additato. Devi essere un modello di rettitudine, altrimenti vieni considerato strano. Persino durante la storia, nella quale vengono coinvolte delle persone e avviene un fatto grave, la cosa che colpisce di più è che prevale la vergogna rispetto al dolore del fatto stesso.
V.: Sì, viviamo nell’epoca dell’immagine, la vergogna è qualcosa che corrompe la tua immagine, ti distrugge dal punto di vista sociale. E’ un elemento di meschinità che ritroviamo anche in altre epoche. Se pensiamo a Céline ne Viaggio al termine della notte, quando da medico entra in queste case della piccola borghesia parigina, c’è la scena di questa ragazza che rimane incinta e abortisce, ma sta per morire dissanguata. Il medico dice alla famiglia di portarla all’ospedale, che però si rifiuta per non avere addosso lo stigma della famiglia disonorata. Anche a scapito della vita della ragazza.
E’ una costante umana che torna anche in questo libro, proprio perché è una comunità ristretta, quindi più soggetta al giudizio altrui.

6. Domanda banale, ma siamo curiosi. Cosa c’è del commissario Soneri in Valerio Varesi?
V.: Tanto, anche se la sua vita non è sovrapponibile alla mia. Io guardo la realtà attraverso di lui, credo nella letteratura impegnata, engagé. Quella in cui l’autore deve anche rivelare quello che pensa. Quando leggo un libro, pretendo personaggi che siano credibili, una trama possibilmente significativa, ma soprattutto mi piace che l’autore mi dica ciò che pensa del mondo, lo esigo. Magari posso anche non essere d’accordo, ma la letteratura è un instillato di vita, dobbiamo raccontare quello che vediamo.
Poi è evidente che le sue vicende sentimentali o ciò che mangia non rispecchia esattamente me. Anche il personaggio televisivo, Barbareschi, è molto diverso da come l’avevo immaginato.

7. Mi colpisce il tuo modo di spaziare da un genere all’altro nei tuoi libri. Come ti riesce?
V.: Il metodo è lo stesso: quando ti interroghi sul perché il tuo Paese è diventato così, il cadavere della Prima Repubblica, o comunque della moralità in generale, di un’etica e di un ideale, torni indietro e fai un’indagine. Sono ripartito, nel caso della Trilogia, dalla Resistenza, dall’atto fondativo da cui è scaturita la Costituzione, che è il mattone basilare della nostra Repubblica. Da lì sono andato avanti, cercando di ricostruire i passaggi politici e sociali che il nostro Paese ha vissuto. Ho fatto un’indagine anche quando ho parlato della storia della politica italiana, con gli strumenti che ha la narrativa, con i personaggi. Nel caso della resistenza, la formazione partigiana. Ho scelto Bologna che era governata dai comunisti quando nel paese era appena passato il fascismo, occupato dagli anglo-americani. La sede del più grande partito comunista dell’Occidente era lì, dove arrivavano le delegazioni e gli americani erano sbigottiti. Poi arriviamo alla fine della strategia della tensione, comincia a Milano il 12 dicembre 1969 e finisce a Bologna il 2 agosto 1980 con la stazione che salta per aria. Da lì comincia un altro mondo, quello di oggi: la finanza e la politica che non esistono più, il mercato che controlla qualsiasi cosa. Siamo finiti dentro un buco nero. Questa non è una crisi economica, ma culturale, soprattutto. Anche attraverso il giallo io cerco di riflettere sul mondo, con la mia visione politico-sociale.

8. C’è un tipo di caso che potrebbe mettere il commissario Soneri in difficoltà?
V.: Questa domanda mi fa venire in mente che, se noi volessimo raccontare la realtà fino in fondo, dovremmo pensare che Soneri non riesce a trovare l’assassino, che fallisce – ma qui il mio editore Frassinelli avrebbe qualcosa da ridire… (ride) – perché la metà dei delitti di questo paese non si risolve. Quindi bisognerebbe costruire un giallo, come ne “La promessa” di Dürrenmatt, in cui l’assassino svanisce.
Questa idea mi stuzzica molto… Probabilmente contrasterei con la gabbia narrativa tradizionale del giallo, i lettori ne verrebbero spiazzati. Magari funzionerebbe, chissà. Comunque devo dire che Soneri si è trovato già in difficoltà ne La legge del Corano, che si svolge nella città di Parma, che è il suo habitat, la quale si trasforma talmente in fretta che non riesce a stare al passo, più delle tecnologie che fatica ad usare. La rapidità del cambiamento può essere parificabile a un assassino che gli sfugge, è il limite dell’inchiesta giornalistica e giudiziaria.
Io ho conosciuto dei commissari di polizia che mi hanno detto che non avendo le prove per arrestare una persona, non possono farci nulla. Io da scrittore posso farlo, posso svolgere il ruolo di supplente in un luogo dove molti misteri ci sono.

9. Non hai l’impressione che quello che voi scrittori mettete nei libri sia del tutto inutile? Già nel 2016 nel tuo libro Il commissario Soneri e la legge del Corano mettevi in guardia contro l’immigrazione incontrollata e il rischio della fine di certi equilibri sociali e politici, che si sono effettivamente verificati. Tanti romanzi, oltre ai tuoi, hanno anticipato la realtà (pensiamo a Gomorra o Suburra, tra i più celebri). Non hai questo senso che si rimuova la coscienza collettiva per non affrontare le situazioni scomode?
V.: Credo che chi fa lo scrittore abbia anche un’antenna in più, che gli permette di anticipare qualcosa. Pensate a Pasolini, che in tempi remoti aveva anticipato come saremmo finiti molto più tardi.
Ma se io, scrittore, penso e prevedo tutto ciò, perché la classe politica non lo fa, e se glielo dici non ascolta? È chiaro che la diffusione limitata dei libri nel nostro paese non ha la forza di cambiare le opinioni, ma questo dimostra anche che non c’è più una connessione tra mondo intellettuale e mondo politico. Oppure dimostra che la classe politica fa finta che questi problemi non esistano e prosegue ciecamente presentando sempre le stesse ricette.Preoccuparsi dell’immigrazione non significa essere xenofobi, e ignorare certi segnali è sconsiderato. La sinistra italiana continua a essere troppo massimalista su questo punto.
Il problema del resto è ormai di tutti, anche di paesi come Francia e Germania che erano decisamente più attrezzati di noi per affrontarlo. Quando saltano le regole di convivenza e scoppia la guerra del “tutti contro tutti”, come diceva Hobbes, è inevitabile che alla fine la gente cerchi qualcuno che prenda il potere e faccia la legge, e la destra è maestra in questo. Uno stato con leggi rigide e severe appare rassicurante, ed è sempre stato così, ma noi non abbiamo la memoria storica.

Cecilia Lavopa