Intervista a Charlotte Link

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(c) Julia Baier

1. Bentornata sul mio blog, Charlotte. E’ uscito per Corbaccio la terza indagine di Kate, facente parte della trilogia a lei dedicata, dopo “L’inganno” e “La palude”. Domanda di rito: com’è nata l’idea?
C.: L’idea alla base di Ohne Schuld era l’uccisione di un bambino che viene tenuta nascosta. Una famiglia normale piomba in una tragedia… Non so più quando o come sia nata in me quest’idea. Come capita spesso, all’improvviso era lì. Non mi ha più dato pace, ha cominciato a crescere dentro di me. E alla fine è diventata un libro.

2. Aveva già in mente sin dall’inizio le storie dei tre romanzi?
C.: No, in anticipo conosco soltanto la trama del libro che devo scrivere e comunque solo a grandi linee. Spesso cambia tutto mentre scrivo.

3. Personaggio principale in questo romanzo è Kate Linville, che si trova a sostituire un ispettore capo, Caleb Hale, messo alle strette dalle sue debolezze. Come si gestisce una personalità, ancora prima del personaggio?
C.: Di ogni figura ho un’immagine, un’idea, e anche della sua personalità. Ma il personaggio si sviluppa veramente solo durante la scrittura. A volte si allontana molto dall’idea iniziale, diventa una persona diversa da come l’avevo immaginata. Sviluppa una vita propria e diventa sempre più artefice del suo stesso carattere. Lo trovo un processo incredibilmente affascinante.

4. Mi incuriosisce che ambienti quasi tutti i suoi romanzi in altri Paesi, come l’Inghilterra e la Francia. Cosa trova che possano trasmettere altri luoghi rispetto al suo paese di origine?
C.: Ritengo semplicemente più interessante ambientare le mie storie in altri paesi. Per me in un certo senso è più esaltante. È una grande sfida che richiede molte ricerche… A me piace molto fare ricerche!

5. In questo thriller psicologico, ci stupisce raccontando una storia dal contesto all’apparenza normale. Crede che nulla sia mai come nella realtà?
C.: Non sempre. Ma la realtà può ingannare e capita spesso. Le persone costruiscono delle facciate proprio quando la loro vita è molto meno perfetta di quanto vorrebbero che sembrasse da fuori. Più l’immagine è idilliaca, più è probabile che dietro ci sia una realtà diversa. Ma ovviamente non si può generalizzare.

6. Trovo che sia riuscita a trasmettere al lettore attraverso questo thriller la grande difficoltà delle donne ad affrontare i vari aspetti che le coinvolgono: essere mogli, madri e lavoratrici, dalle quali ci si aspetta sempre condiscendenza e comprensione. Ce lo vuole raccontare?
C.: Secondo me la società continua ad aspettarsi dalle donne una maggiore inclinazione alla condiscendenza, al compromesso. Proprio la capacità di trovare compromessi è più spiccata nelle donne, che la sanno gestire molto meglio degli uomini. Di per sé non è un difetto. Tuttavia spesso viene considerata come una debolezza. Ci sono anche dei tabù che continuano a pesare sulle donne: nel libro parlo di una donna che si sente schiacciata dal suo ruolo di madre, che in ultima analisi non è in grado di accettare i figli. Inaudito! In una situazione analoga un uomo si sottrarrebbe completamente alle responsabilità familiari, mentre una donna deve fingere che tutto vada bene. Nel romanzo è proprio questo a provocare la catastrofe: questa donna non può distruggere l’immagine che la società le ha cucito addosso. Trovo intollerabile che le persone che non rientrano nel modello dominante vengano disprezzate. E comunque non vale solo per le donne.

7. In una precedente intervista che le abbiamo fatto, lei affermava di non entrare in relazione emotiva dei personaggi, per poterli muovere a suo piacimento all’interno della trama. Anche in questo libro è avvenuto così?
C.: In realtà non intendevo dire esattamente questo. Senz’altro sviluppo dei legami emotivi con i personaggi. Ma nel contempo cerco di mantenere nei loro confronti l’obiettività e un punto di vista da osservatrice. Non posso immedesimarmi con loro. Devo essere in grado di affrontare le loro azioni e il loro sviluppo personale senza pregiudizi. È la strategia che ho usato in questo romanzo così come nei precedenti.

8. Che messaggio ha voluto trasmettere attraverso questo romanzo?
C.: Non c’è nessun messaggio. Voglio solo raccontare. Di come le persone possano diventare colpevoli anche se nella loro vita cercano di evitare in tutti i modi di macchiarsi di una colpa. Di come la vita le metta alle strette, le faccia trovare di colpo con le spalle al muro. Allora commettono qualcosa di male perché non hanno via d’uscita (o credono di non averla). Sì, forse questo può essere considerato effettivamente un messaggio: tutti possiamo cadere nella colpa.

9. Il mio blog è molto attento alle uscite degli scrittori nord-europei ma, se ci facciamo caso, quando se ne parla non si citano autori tedeschi ma svedesi, finlandesi, norvegesi ecc. Cosa ne pensa del fatto che siate indicati come scrittori tedeschi e non nel filone nordico?
C.: Da un punto di vista geografico è un peccato, ma è sicuramente accettabile: vista dall’Italia, la Germania è a nord, ma in realtà appartiene all’Europa centrale. E non a quella settentrionale. Almeno credo… 😊

10. C’è un romanzo di cui ha pensato: “Avrei voluto scriverlo io”?
C.: Ci sono molti libri che amo, molti autori e autrici che ammiro. Ma non ho mai avuto il desiderio di scriverli io. L’ispirazione deve necessariamente nascere dentro di me.

11. Hemingway scrisse: “Il mio obiettivo è quello di mettere su carta quello che vedo e ciò che sento nel modo migliore e più semplice.” Qual è il suo obiettivo quando scrive?
C.: Io voglio catturare i lettori. Con la tensione, ma soprattutto facendoli identificare con i personaggi. Voglio che si immedesimino in loro.

Intervista a cura di Cecilia Lavopa