Makis Malafekas è nato nel 1977 ad Atene. Dopo gli studi in Storia dell’arte e Antropologia sociale, ha tenuto seminari sul fumetto europeo alla Sorbona e ha lavorato all’Accademia di Belle Arti di Parigi. Ha scritto per vari periodici e quotidiani, greci e francesi, tra cui «Lifo» e «Libération». Deepfake è il suo terzo romanzo, best-seller ai primi posti delle classifiche in Grecia per molte settimane. I suoi libri hanno grande successo di pubblico e critica sia in Grecia sia in Francia. Vive e lavora tra Bruxelles e Atene. La casa editrice Baldini+Castoldi lo ha tradotto e abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’autore insieme ad alcuni blogger. Questo è il risultato della bella chiacchierata:
1. Mi è piaciuto molto l’argomento che è stato trattato, il concetto di disinformazione, del tutto e il contrario di tutto. Mi ha ricordato Orwell e il cambio della storia, in generale. Soprattutto in questo periodo, in questa epoca, dove vediamo a livello mondiale quello che sta succedendo, le chiedo: potere e disinformazione vanno a braccetto, quindi?
M.: Non possono non andare a braccetto, il potere è sempre legato al dialogo, alla parola. Nel tempo in cui viviamo il potere non è anche la necessità di avere una continuità coerente, perché in ogni caso tutti sappiamo che è falso. È come se fossimo in un certo senso sempre pronti a credere in qualcosa e subito al suo contrario.
2. Ho avuto qualche difficoltà a entrare nel ritmo del racconto, mi sono sentita un po’ shakerata. È il suo stile di scrittura o è una tecnica che ha utilizzato per questo tipo di racconto, molto particolare e che si allontana dai suoi romanzi precedenti?
M.: Questo è lo stile dei libri della trilogia di Krokus, non necessariamente di tutti i libri. Questa è una specie di accordo mistico tra me e Krokus, perché anche lui è uno scrittore. Quello che accade dentro la coscienza del protagonista in qualche modo deve essere importato. È uno stile volontariamente veloce ma soprattutto secco.
Ho cominciato a scrivere perché nella prosa greca contemporanea domina uno stile con troppo lirismo, un po’ sovraccarica di simbolismo e di allegoria.
Troppo pomposo, una sorta di brusio di sottofondo al quale volevo dare un taglio e non mi sembrava adatto alla mia epoca. Invece il mio taglio di scrittura legato al periodo della crisi, l’idea per cui apro la porta e vedo cosa c’è oltre. Non mi interessa descrivere l’apertura della porta, ma parlare già di cosa vedo una volta aperta.
3. Una delle cose che ho apprezzato di più è l’ambientazione, una Atene molto scura che ricorda Gotham City. Si è ispirato a qualche locale in particolare? E come mai molto spazio nel libro viene dato all’indagine tra Johnny Depp e Amber Heard?
M.: Effettivamente ero interessato al caso, ed era qualcosa che succedeva nel momento in cui stavo scrivendo il libro. Dal momento che Krokos è il mio alter ego, questo mi ha aiutato.
Per quanto riguarda l’ambientazione molto dark, dobbiamo smontare degli stereotipi, il mio paese come sappiamo tutti è stato oggetto di una crisi terribile che ancora non è finita. Una crisi che ha fatto sì che mezzo milione di giovani se ne sia andato per cercare lavoro e non è mai tornato, e ha quadruplicato i suicidi.
In luoghi in cui c’è molta lucentezza, si creano grandi ombre. Mi interessava questa relazione di luci e ombre.
4. Il fatto di farsi trasportare dalla storia ha modificato l’idea originale del romanzo? Ci sono stati avvenimenti per cui in corso d’opera è stato costretto a modificarlo?
M.: Tante cose sono cambiate dalla trama iniziale, quasi tutto. Succede sempre così, è successo anche per i libri precedenti. Non ho un metodo, vedo cosa succede mentre vado avanti con la trama.
Il problema fondamentale è capire perché Krokos fa quello che fa, entrare nella sua testa e comprendere perché agisce in un certo modo. Necessariamente questo fa sì che le soluzioni si trovino giorno per giorno e cambino nel corso del processo della scrittura.
Tra l’altro all’inizio avevo in mente un altro titolo, Revenge Porn, ma pensavo che la questione del video di cui scrivo sarebbe stata più centrale, nella trama. Però più andavo avanti con il libro, più lo stesso libro mi faceva propendere maggiormente verso le problematiche della nostra epoca.
5. Quando ha creato il personaggio di Krokos, aveva in mente che sarebbe diventato il personaggio di una serie o l’aveva pensato come autoconclusivo?
M.: All’inizio avevo pensato a un solo romanzo, addirittura a un racconto di cento pagine.
Era il 2017, stavo scrivendo un libro su Miles Davis, con molta disciplina e ogni giorno per cominciare a scrivere, uscivo per andare a bere un caffè in un quartiere di Atene. Poi tornavo e mi mettevo alla scrivania.
Un giorno, mentre ero nel bar, passò una mia amica con l’aria distrutta, che tornava dall’isola di Idra con uno zaino in spalla. Questa mi confessò che, durante una festa, aveva rubato un quadro. Non so se conoscete documenta (proprio con la d minuscola): una delle più importanti manifestazioni internazionali d’arte contemporanea europee che si svolgeva in Germania, ma proprio nel 2017 si è trasferita ad Atene, innescando molte politiche per aver scelto un Paese in crisi e pieno di contraddizioni come la Grecia.
In quel momento, ho pensato che quella era una situazione letteraria che avrebbe potuto spiegare tutte le contraddizioni del mio paese. Il personaggio di Krokos è arrivato praticamente in automatico. Una volta uscito il libro, tutti mi chiedevano cosa sarebbe successo “dopo”. Per cui ho deciso di continuare.
6. Lei è esperto di fumetto europeo. C’è qualcosa in questo linguaggio anche nella sua parte visiva che ha trasferito nella scrittura?
M.: Sì, sì, sì! In particolare i fumetti francesi e italiani degli anni ’70 tipo la pop art di Andrea Pazienza, Tanino Liberatore. Soprattutto il meccanismo del fumetto è la rapidità, la velocità. Ovviamente attingo anche dal cinema: sequenze brevi, rapide, micro capitoli.
7. Seguendo il mio sito esclusivamente genere thriller/giallo/noir, confermo che questo romanzo rientra a pieno titolo nel noir mediterraneo. Ultimamente, però, questo genere sembra essere stato soppiantato dal cozy crime, come se i lettori avessero bisogno della comfort zone e del politically correct. Il suo romanzo non lo è, entra a gamba tesa nelle problematiche politiche ed economiche di un Paese che forse ancora non è uscito dalla crisi. Secondo lei i lettori hanno ancora la capacità di essere scossi dal romanzo di denuncia sociale?
M.: Facendo un discorso più generale, in tutti i generi letterari ci sono prodotti che vanno verso la direzione di tranquillizzare i lettori o quelli che servono a far scuotere le coscienze. Questa distinzione non significa che la letteratura leggera ci dice cose che già sappiamo o quelli che scuotono ci dicono ciò che non sappiamo.
Penso che il cozy crime sia un genere, chiamiamolo, antidolorifico. Questo succede perché si parte dal presupposto che ci sono alcune istituzioni come la polizia e la giustizia, dando per scontato che funzionino.
L’unica cosa che interessa è: chi è l’assassino e che chi lo porterà in prigione avrà fatto il suo lavoro. Tutti sappiamo chi è il colpevole, non dico solo nei libri ma nella vita. Ma il punto è: cosa ce ne facciamo di questa informazione? È lì che comincia la letteratura che turba.
Cecilia Lavopa