Intervista a Christian Frascella

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Christian Frascella è nato a Torino nel 1973. Ex militare nel Genio Ferrovieri, è stato anche operaio di fabbrica, e operatore di call center. Ora vive e lavora a Roma.
Nel 2009 ottiene un grande successo con il romanzo Mia sorella è una foca monaca (Einaudi) Seguono altri libri, tra cui, sempre per Einaudi, Sette piccoli sospetti (2010) e La sfuriata di Bet (2012). Nel 2016 pubblica Brucio per Mondadori. Nei suoi romanzi è sempre presente l’impegno per i temi politico-sociali tipici della nostra società.
Nel 2018, esce per Einaudi il suo primo romanzo poliziesco, Fa troppo freddo per morire, in cui compare per la prima volta l’investigatore privato Contrera. Segue nel 2019 la seconda avventura, Il delitto ha le gambe corte. L’assassino ci vede benissimo continua nel 2020 la saga dell’investigatore privato di Barriera di Milano.

1.L’assassino ci vede benissimo è il terzo romanzo di Contrera. Il tuo protagonista si trova a un punto morto, si è bruciato ogni tipo di affetto. Perché hai deciso di metterlo alle corde e cosa hai in mente per lui?
C.: Non l’ho fatto di proposito, come ben sai i personaggi a un certo punto cominciano a fare come gli pare, e ti ritrovi a scrivere scene, pensieri, azioni che non avevi immaginato. A dire il vero, credevo che Contrera sarebbe stato il protagonista di un unico romanzo, una mia vacanza da scrittore nel poliziesco, invece poi mi sono accorto che aveva tante cose da dire e da fare, e la seconda avventura è nata da sé, quasi perché me lo chiedeva lui. E così la terza. In tutto questo, lui è rimasto simile a se stesso ma gli eventi e le persone attorno a lui hanno subito dei cambiamenti. Mi piace immaginarlo come uno spettatore sia curioso che disilluso degli accidenti che gli capitano. Stare alle corde è il suo modo di essere, altrimenti non sarebbe interessante. Solo ogni tanto guadagna il centro del quadrato, ed è quando risolve i casi di omicidio. Non ho proprio idea di cosa gli succederà in futuro, vediamo cosa ha da suggerirmi lui.

2.Le storie di Contrera si svolgono a Torino, in Barriera di Milano. Oggi tu abiti a Roma, ma si direbbe che la Barriera sia ancora presente nella tua testa. Cosa ti è rimasto di questo straordinario quartiere?
C.: È un quartiere profondamente italiano nella sua etnicità. La dimostrazione di come le periferie siano ormai irrimediabilmente cambiate. Contrera giudica il posto in cui vive e lavora con scetticismo e delusione e cinismo, e tutti questi sentimenti trovano amalgama nella sua autoironia, altrimenti sarebbe solo il fantasma di una persona. Ho vissuto in Barriera anni controversi, e un po’ la amavo e un po’ la odiavo, ma sono stati anni importanti, di formazione, e non potevo non ambientare lì le storie di quest’uomo.

3. Contrera ha la terribile capacita di indirizzare i propri sforzi verso gli amici della Barriera e l’incapacità totale, patologica direi, di riservarne una parte alle persone che dovrebbe amare. Per loro c’è solo rifiuto e incomprensione. Perché questa scelta?
C.: Consideriamo che è un uomo che non si capisce e che svolge un mestiere sordido in un mondo violento. Può dare tutto se stesso per cercare la verità in un’indagine e intanto dimenticarsi di telefonare alla figlia adolescente, forse perché sul lato dei rapporti umani ha gettato la spugna, mentre l’aspetto lavorativo, con la risoluzione dei casi, è una sorta di rivalsa verso i tutori dell’ordine. Scoprire un assassino è il suo modo di sentirsi utile a se stesso, anche se l’amarezza di fondo – quella di esser stato cacciato dalla polizia per una questione di droga e di aver così causato il suicidio dell’integerrimo padre – è più forte di ogni successo, l’ombra lunga che lo contiene e riduce.

4. In un’intervista su La Stampa hai detto: “Sono nato in periferia. In centro mi sento sempre un po’ turista”. Cosa significa essere turista in centro?
C.: Da Barriera mi sono spostato in centro, poco prima dell’uscita del mio romanzo d’esordio, nel 2009. La mia condizione economica era migliorata, e pensavo di potermi lasciare alle spalle quel quartiere e la periferia. Ma mi sbagliavo, e mi sentivo un estraneo. Parlavo un’altra lingua rispetto alle persone che frequentavo. E, come ha scritto Ross Macdonald, «alla fine posseggo la mia lingua e sono posseduto da essa». La mia lingua è quella della periferia, dei marciapiedi, dell’odore di kebab, delle levatacce alle cinque del mattino di chi lavora davvero.

5. Tra i lettori il tuo personaggio ha avuto un grande successo. Perché Contrera piace così tanto?
C.: Credo che piaccia la sua imperfezione, il suo modo di giocarsela improvvisando sul momento, come capita a molti. Forse i lettori cercavano un personaggio-persona, uno che somigliasse a loro o a qualcuno che conoscevano. Uno di quelli a cui non sai se voler bene o chiudere la porta in faccia, il tizio sul balcone di fronte, che una volta ti saluta e la volta dopo nemmeno ti caga. I lettori si divertono. Le lettrici lo amano e lo odiano e poi lo amano. Poi ci sono anche quelli a cui uno così proprio non piace, eh, ed è legittimo. È giusto che leggano altro, la bidimensionalità e prevedibilità di certi personaggi può risultare distensiva dopo una giornata di troppa annichilente realtà.

6. Tu arrivi al noir o poliziesco da tutt’altro genere di romanzi. Com’è venuta fuori la voglia di scrivere questo genere letterario e come sono nati i personaggi?
C.: Io ho cominciato la mia ‘carriera’ di lettore proprio dai gialli, polizieschi, thriller e questo è accaduto in simbiosi con il mio migliore amico, Fabrizio, cui è dedicato il primo Contrera. Poi entrambi ci siamo allontanati dal genere per sondare altro, perché c’era tutto un mondo letterario da scoprire, allora come adesso. Quando lessi le storie di Arturo Bandini scritte da Fante, mi innamorai del mood, e provai a replicarlo – con un occhio al giovane Holden – nei primi libri, che avevano adolescenti come protagonisti. Però l’intrigo, l’indagine, la risoluzione del mistero continuavano ad agitarsi in me. Così, nel 2017, con un contratto in essere con Einaudi che non trovava sbocco in un nuovo libro da ormai cinque anni, ho incontrato virtualmente su Twitter Basilio Di Iorio e Marco Piva, due folli entusiasti del genere noir e non solo. Leggendo le loro discussioni mi sono di nuovo interessato al «mistero da svelare» e mi sono ritrovato a pensare a quest’uomo seduto in una lavanderia a gettoni. E lui mi ha chiamato, mi ha detto che era un investigatore privato e che aveva una storia da raccontarmi. L’ho ascoltato, ed è nato Fa troppo freddo per morire.

7. La trama è ricca di colpi di scena e trovate geniali che riescono a mantenere sempre alto il livello di tensione, come la costruisci? La sviluppi durante la scrittura oppure hai tutto ben chiaro fin dall’inizio?
C.: Quando comincio, so solo più o meno in che condizioni è Contrera, e che ci sarà un omicidio che lo chiamerà in causa e un assassino da consegnare agli inquirenti. Faccio andare le prime pagine, intanto comincio a pensare a chi sarà il morto. Creo attorno a esso un ventaglio di personaggi, e in uno di loro individuo l’unico assassino possibile. La parte più dura è la ricerca di un movente, ed è la cosa a cui penso di più quando non scrivo. Quando arriva il movente, so che devo disseminare gli indizi. Ma ormai so chi è stato, e intanto Contrera ha la sua vita oltre il crimine da vivere, coi casini famigliari e con la donna che ama e la storia comunque è andata avanti. Non è Poirot, per intenderci. Il giallo è collaterale. La cosa incredibile, almeno per me, è che procedo, ogni giorno, tornando indietro solo per lasciare le tracce dell’assassino, la sua ‘individuabilità’ per il lettore che ama maggiormente questo aspetto. Quando finisco la prima stesura in realtà ho finito il libro. Dopo faccio le «pulizie di casa», come dice Stephen King.

8. Che uso fai dei social network? Servono alla diffusione di un libro? E qual è il tuo rapporto con i lettori in rete?
C.: Come ti dicevo, Contrera è nato anche grazie ai social e soprattutto alla comunità dei #follipergialli di twitter. Per il resto, cazzeggio, scrivo quello che mi passa per la testa, a volte parlo di romanzi letti e di scrittura. Non credo servano moltissimo alla diffusione del libro. Gli unici che possono fare la differenza, per un autore come me e come te che non vanno in Tv e non sono influencer di un cavolo di niente, sono i piccoli ma grandi librai. Sono loro che diffondono i nostri lavori e che attivano il famoso ‘passaparola’ che ci permette di continuare a fare al meglio il mestiere che facciamo.

9. Un ultima domanda: qual è il tuo rapporto con i classici e quanto hanno influito sul tuo modo di scrivere e sul carattere dei tuoi personaggi?
C.: Leggere tutto, leggere tanto, leggere ogni giorno. Leggere ciò che è sublime (Dickens, Kafka, Pavese, Bernhard, Camus, Foster Wallace, Carver, Fante, Mishima, McEwan, Dostoevskij, Tolstoj, Buzzati, Strand, le poesie di Bukowski, e tanta altra roba) ma anche ciò che non funziona (qui non farò esempi, ovviamente): tutto insegna a scrivere, e a creare personaggi, e a raccontare storie che vogliono essere raccontate.

Intervista a cura di Enrico Pandiani