Intervista a María Oruña

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María Oruña (Vigo, 1976), laureata in legge, ha esercitato per dieci anni come avvocato. Nel 2013 pubblica il suo primo romanzo, La mano del arquero, e nel 2015, con il successo internazionale de Il porto segreto (Ponte alle Grazie, 2023), decide di dedicarsi interamente alla letteratura. Sempre per Ponte alle Grazie è uscito Quel che la marea nasconde (2022) e ora è uscito anche il nuovo romanzo Un posto dove andare (2024).

Abbiamo incontrato l’autrice a Milano e questo è quello che ci ha raccontato:

1. Buongiorno Maria, benvenuta su Contorni di noir, grazie di cuore per la tua disponibilità. In “Un posto dove andare” la trama gialla si snoda attorno al mondo dell’archeologia e della speleologia, un mondo i cui protagonisti sono dei moderni esploratori, visionari e avventurieri, sempre alla ricerca del brivido, dell’adrenalina. Quali sono gli aspetti che più ti hanno affascinato di questo mondo e che poi ti hanno ispirato nella costruzione della storia?
M.: Il fatto che queste persone, gli archeologi e gli speleologi di cui narro in questo romanzo sacrifichino, nel modo più totale quasi, la propria vita per il bene della ricerca della conoscenza è di per sé un qualcosa che ha richiamato la mia attenzione. Il fatto che queste persone esistano davvero, il fatto che io abbia avuto l’opportunità di conoscerle, di parlare con loro, mi è sembrato di per sé incredibile.
Oltretutto il fatto che siano così discreti, che tengano per così dire un profilo basso. Perché loro mi hanno detto che vanno alla ricerca di una storia morta, morta perché non suscita l’interesse di tutti, anzi magari non suscita l’interesse di nessuno, e alla mia domanda “Ma perché fate questo, perché vi occupate di ciò?” la risposta è “Vogliamo studiare qualcosa che nessuno ha mai studiato prima, vorremmo capire da dove veniamo come specie”.

E sappiamo che è un compito che difficilmente troverà una soluzione perché magari sono archeologi specializzati nel paleolitico, che dedicano la loro vita altre che allo studio a un viaggio continuo per cercare di comporre il puzzle che ci definisce come specie, come umanità. Quindi quello che volevo fare era un omaggio a queste persone che credo lo meritino. Al contempo il romanzo ha una parte che costituisce una critica all’atteggiamento di negligenza, di abbandono da parte delle istituzioni sia nei confronti della scienza sia nei confronti della storia perché, come sappiamo, le risorse per i ricercatori e per gli studiosi mancano sempre e invece sono loro che si incaricano di incrementare la nostra conoscenza.

2. In questo secondo romanzo della serie è forte il tema dell’amore, che indaghi nelle sue diverse sfaccettature. Personalmente mi ha particolarmente colpito l’evoluzione di Valentina nel suo rapporto con Oliver, che ho trovato, da lettrice, profonda e coinvolgente. Quali sono state per te, da scrittrice, le dinamiche relazionali che, descrivendole, ti hanno maggiormente coinvolto emotivamente?
M.: Mi è piaciuta la domanda e nessuno me l’aveva mai fatta prima. Qui abbiamo due persone, Valentina e Oliver, che decidono di essere sole a un certo punto della loro vita. Oliver concretamente fugge da una situazione difficile che caratterizzava la sua vita a Londra, da tutto un insieme di cose negative e lì commette in qualche modo un gesto di codardia. Però lì dimostra anche un gesto di coraggio scegliendo di ricominciare da zero, daccapo, in un posto completamente nuovo per lui. Valentina, dal canto suo, ha lasciato il suo ultimo compagno perché si era resa conto che era all’interno di questa relazione tanto per stare con qualcuno, ma era una relazione fondata sull’abitudine.
Valentina e Oliver si scelgono reciprocamente e questo non è qualcosa di così scontato, di così abituale visto che stiamo parlando di due adulti, non stiamo parlando di due adolescenti e vediamo quelli che sono gli inciampi della storia. A un certo punto della trama appare un’ex fidanzata che scatena una reazione di gelosia e di insicurezza in Valentina e c’è una scena che io penso sia abbastanza emblematica in cui Valentina dice: “Spesso noi donne siamo inclini ad apprezzare di più i “maledetti”, cioè i tipi alla James Dean però le donne che sono davvero intelligenti finiscono per scegliere i bravi ragazzi.”

Penso che questa sia la realtà della loro storia, loro sono sì una coppia ma soprattutto li potremmo definire come una squadra. Penso che in generale a tutte noi, alle donne in particolare, è stata venduta un’immagine dell’amore un po’ ingenua, un po’ naif, un po’ disneyana, un po’ da giorno di San Valentino – il giorno di San Valentino è importantissimo però poi magari il nostro partner negli altri 364 giorni dell’anno va allo stadio con i suoi amici e non si ricorda di noi anche se ci ha regalato le rose per San Valentino -. Io credo che questo aspetto di fare squadra nella coppia, di essere presenti uno per l’altra fondato sul rispetto reciproco è quello che davvero funziona a lungo termine e loro sono una squadra anche in quanto sono due contrappunti, si equilibrano, si bilanciano a vicenda, lei è metodica, perfezionista, lui ha questi scatti di humor inglese e a un certo punto dice: “Ok va bene tutto, però adesso prendiamoci un pomeriggio di relax.” E quindi costituiscono una sorta di tandem.

Qualche giorno fa un mio amico scrittore, Maximo Huerta, diceva che le coppie che resistono a lungo non resistono assieme perché si sopportano, ma perché hanno la capacità di ricostruirsi anche dopo un evento che magari li ha fatti un po’ traballare.

3. Valentina ha un dottorato in Psicologia giuridica e forense ed è un membro della Guardia Civil. Cito dal romanzo, “la prima cosa la fece per comprendere i meccanismi delle menti corrotte dalla malvagità, la seconda per combatterle.” Attraverso di lei parli quindi spesso dei meccanismi che si celano dietro i disturbi mentali, come per es. il disturbo ossessivo o il disturbo post-traumatico da stress, lasciando nel lettore la voglia di approfondire questi argomenti. Come è nata l’idea di inserire questi aspetti nella storia e quanto secondo te una società come la nostra, individualista, digitale e frenetica può essere responsabile della solitudine che può accompagnarsi alla malattia?
M.: Alla fine penso che tutti in una certa misura siamo responsabili di tutto e di questo argomento ne parlo nel sesto libro della saga che si intitola “Los inocentes”. Nessuno è innocente. Valentina Redondo da una parte effettivamente soffre di questa ossessione compulsiva, è ossessionata dalla necessità di ordine attorno a sé ma anche in qualche modo dalla necessità di bandire il male da tutto ciò che la circonda, dal mondo in cui vive. Valentina ha gli occhi di colore diverso e il fatto che uno dei suoi occhi abbia cambiato colore nel corso della sua infanzia è dovuto a quello che è successo con suo fratello, che lei ha perso a causa della dipendenza dalle droghe.

Diciamo che quest’occhio che le resta di un colore diverso è un’eredità di quello che è successo a suo fratello. Però penso che effettivamente tutto quello che è intorno a noi, questa digitalizzazione estrema se non viene in alcun modo controllata, se non viene in alcun modo arginata finirà per farci perdere, per perderci, per disorientarci all’interno di quello che potremmo chiamare una sorta di limbo virtuale. Siamo sempre più condannati alla mancanza di comunicazione, questa mancanza di comunicazione finirà per perderci. Forse dovremmo soffermarci a pensare al modo in cui gestiamo le nostre relazioni interpersonali, perché ci sono sempre più persone appunto perse. La gioventù ha una serie di problemi crescenti, gli psichiatri non riescono a stare dietro alle loro agende viste tutte le richieste che hanno e purtroppo c’è un numero crescente di suicidi.

Non so cosa succeda in Italia al riguardo, in Spagna quando una persona si suicida i mezzi di comunicazione non dicono che una persona si è suicidata, dicono che è morta per paura che dire che si è suicidata possa scatenare in qualche modo un effetto di emulazione. Però i dati parlano chiaro, in Spagna, in Galizia, di media c’è un suicidio alla settimana, e quindi io penso che di fronte a una realtà di questo genere dovremmo veramente fermarci e riflettere su come stiamo gestendo alcuni aspetti.

4. Nei tuoi romanzi spesso affronti tematiche importanti e attuali. Mi riferisco in questo caso all’ecologia e all’ambientalismo. Quanto secondo te il genere noir è ancora in grado, al giorno d’oggi, di raccontare la realtà contemporanea offrendo al lettore spunti significativi per riflessioni profonde?
M.: Sono convinta del fatto che i lettori cerchino un intrattenimento, un divertimento, una distrazione. Però penso anche che il lettore possa decidere fino a dove scendere nei diversi strati narrativi e di riflessione che un libro propone. E personalmente penso che i libri dovrebbero essere costituiti da diversi strati. Per quanto mi concerne, la parte forse più divertente, di maggior intrattenimento è il delitto, il crimine che viene commesso, e qui inizia un gioco d’ingegno, una sfida nei confronti del lettore che deve cercare di capire chi lo ha commesso, in che modo lo ha fatto e perché, e nel mio caso, siccome non ricorro a spiegazioni di carattere fantasioso, soprannaturale (fantasmi o altro) dovrà sempre trovare una risposta concorde, conforme alla ragione, utilizzando la propria testa.

Credo che in qualche modo un libro debba anche essere uno specchio dei propri tempi, della società che ritrae, e per questo sono profondamente contraria alla cosiddetta “cultura della cancellazione”, dove cerchiamo di vietare un tipo di letteratura, un tipo di libro perché dice qualcosa che oggi non ci piace. Tipo un libro che ritrae un eroe maschile quando dovremmo magari fare più spazio alle donne. Questo romanzo è stato scritto ed è uscito in Spagna nel 2017 ma a mio avviso il libro dovrebbe essere atemporale e avere un valore oggi quando viene pubblicato e lo stesso valore fra trent’anni. Magari, diversamente da quello che oggi succede, i ricercatori avranno a disposizione tutte le risorse economiche per le proprie ricerche – ne dubito fortemente – quindi quell’aspetto potrebbe non essere più di attualità.

A mio modo di vedere non dovrebbe contenere un messaggio moralizzante, non deve dare delle risposte chiuse, deve piuttosto suscitare delle domande. In questo modo io penso che il libro possa rimanere vivo sempre, nel momento in cui viene pubblicato così come per il futuro, e poi avere diversi ingredienti in cui il lettore può trovare divertimento, intrattenimento, avventura, gioco d’ingegno al quale mi riferivo prima.
Poi, continuando a leggere e chiedendosi come mai questo crimine viene commesso, scoprire che c’era una ragione particolare. Però come dicevo all’inizio è il lettore che decide fino a che punto, fino a che strato del libro spingersi. Non ammiro particolarmente lo stile per esempio di Raymond Chandler, dove il noir è per forza di cose pieno di un vocabolario volgare, di personaggi misogini. Credo che questo tipo di stile non rifletta più la realtà della società odierna e peraltro il noir è un settore, è un armadio, uno scaffale davvero vasto, davvero infinito e quello che io scrivo non è un noir puro ma è un noir un po’ ibridato.

5. Concludo riprendendo un passo dell’appendice del libro in cui, citando Tolkien, lasci un messaggio di speranza ricordando come “non tutti gli erranti sono perduti” e auguri a noi lettori di trovare un bel posto verso il quale dirigerci. Qual è invece il “Posto dove andare” di Maria Oruña?
M.: Sicuramente il mio “Posto dove andare” è la mia famiglia. Direi che in tutti i miei libri, se analizziamo bene, il titolo ha una doppia interpretazione, un doppio senso. Tutti i personaggi dei libri sono alla ricerca di un posto dove andare e vediamo a volte cosa succede alla fine se questo posto non viene trovato. Magari non tutte le storie finiscono in un modo così fatale come quella di cui stiamo parlando, però non trovare un posto dove andare, considerando quanto ci logora la vita, può effettivamente rappresentare un problema. Io credo che sia davvero importante in ogni caso trovare una ragione che ci spinga ad alzarci la mattina e a non trascorrere la nostra giornata come degli automi ma avendo uno scopo, un obiettivo in mente.

Quindi si tratta di qualcosa di davvero importante e incoraggio tutti sempre a trovare il proprio posto dove andare. Non possiamo aspettare e non possiamo attenderci che sia la luce a trovare noi, siamo noi che dobbiamo andare verso la luce che può illuminare il nostro cammino. Esattamente come lo scrittore non può aspettare che sia la storia a trovarlo ma deve andare lo scrittore o la scrittrice incontro alla storia. E vorrei aggiungere una cosa, che come scrittrice ambisco sempre a trovare una nuova storia che mi auguro e mi prefiggo che sia migliore della precedente. Quindi sono sempre alla ricerca di materiale per una nuova storia, ora qui a Milano purtroppo non ho il tempo di farlo ma se lo avessi non me ne starei qua rinchiusa, sarei in giro a cercare di parlare con delle persone, viaggerei, dialogherei soprattutto con le persone anziane, osserverei tantissimo e sarei sempre alla ricerca di quel qualcosa che mi dice: “Ecco qui c’è una nuova storia, l’hai trovata.”

Intervista a cura di Linda Cester